April 22: Tazria/Metzora – Leviticus 12:1-15:33

Blog della URJ di questa settimana:  D'VAR TORAH BY: D'VAR TORAH BY: RABBI DVORA E. WEISBERG

Leggere Tazria-M’tzora avendo vissuto gli anni del COVID rivela diverse cose. Cose che prima parevano incomprensibili (forse anche reprensibili) di colpo hanno senso.

Levitico 13 presenta dettagli strazianti per ciò che riguarda la diagnosi e la risposta a diverse malattie della pelle. Queste infestazioni, la cui causa è sconosciuta, rendono impuri gli esseri umani ed i rituali. Il sacerdote che esamina l’individuo che ne è afflitto non riesce ad identificare la causa della malattia, riesce solo a determinare se i sintomi necessitano l’isolamento dell’individuo dalla comunità. Certe volte, il sacerdote non riesce a determinare se i primi sintomi indicano una malattia contagiosa; in questo caso, una seconda visita potrebbe servire per confermare una diagnosi.

Se il sacerdote dichiara l’individuo impuro, succedono le seguenti cose:

“Il lebbroso colpito dalla lebbra porterà vesti strappate e il capo scoperto, si coprirà la barba e andrà gridando: Immondo! Immondo! Sarà immondo finché avrà la piaga; è immondo, se ne starà solo, abiterà fuori dell'accampamento.” (Lev. 13:45-46).

Chi non avrebbe compassione di questa persona? Viviamo in un periodo in cui il tossire, il sentire il cibo meno saporito del giorno precedente, o una febbre leggermente alta ci fa sentire incerti sul pensare se abbiamo un raffreddore, un’influenza stagionale, o se abbiamo contratto un virus terrificante. Immaginate la reazione ai sintomi descritta nel Tazria-M’tzora.

Nel periodo in cui chiunque incontriamo, indipendentemente da quanto sembrino sani, potrebbe essere la fonte di un contagio, immaginate la reazione di coloro che si trovavano nei pressi di una persona malata così come viene descritta nel Levitico. Considerate le restrizioni imposte a quella persona. Vestita in modo da indicare lutto, indossando una maschera sopra la bocca, camminando da sola, segnalando la propria condizione nel come appariva e come parlava. Queste persone erano costrette ad isolarsi, lontane da amici e parenti, durante ciò che doveva essere uno dei momenti più ansiosi e spaventosi della loro vita. Niente visitatori, nessuna parola di conforto dai propri cari, senza sapere cosa porterebbe il domani.

Ciò nonostante, la Torah offre speranza. Levitico 14 inizia così: “Questa è la legge da applicare per il lebbroso per il giorno della sua purificazione. Egli sarà condotto dal sacerdote. Il sacerdote uscirà dall'accampamento e lo esaminerà; se riscontrerà che la piaga della lebbra è guarita,  ordinerà che si prendano misure per il rito espiatorio” (Lev. 14:2-3). Questo rito non è una cura, un rito per bandire la malattia; viene fatto solo dopo che i sintomi fisici della malattia sono scomparsi. Permette alla persona che sta rientrando nella comunità di provare una catarsi, di liberarsi simbolicamente dal dolore e dalla paura della malattia. Il rito in sé potrebbe sembrare bizzarro: un uccello viene macellato ed il suo sangue viene mischiato a dell’acqua e poi spruzzato sulla persona guarita. Un secondo uccello viene poi liberato. L’individuo poi lava i propri vestiti e fa un bagno, ma deve rimanere fuori dalla propria casa per un’altra settimana. Poi, dopo un secondo bagno, l’individuo offre dei sacrifici e viene poi unto con sangue ed olio.

Tazria-M’tzora conferma ciò che abbiamo imparato negli ultimi anni: il funzionamento del corpo umano è meraviglioso e misterioso. Nonostante tutto quel che sappiamo in materia e con la conoscenza medica odierna, non riusciamo a spiegare perché certe persone si ammalino mentre altre no. Spesso, quando i nostri corpi funzionano diamo questo per scontato, siamo poi scioccati e costernati quando ciò non accade. Ci sentiamo traditi quando ci ammaliamo. Anche quando sappiamo la causa di una certa malattia, questa conoscenza non offre rassicurazione e non placa i nostri timori.  

Gli scrittori della Torah ed i rabbini che la interpretarono nei primi secoli dell’era comune non avevano la conoscenza medica che abbiamo oggi. Le spiegazioni su come funziona il nostro corpo in base alla scienza moderna erano un mistero per loro. Il Talmud riconosce questo mistero sacro con parole che ora fanno parte della nostra liturgia mattutina: “Benedetto [sei Tu]… che hai creato gli esseri umani con saggezza, creandoli con aperture e canali. Tu sai che se una di queste si aprisse o si chiudesse [al momento sbagliato] sarebbe impossibile trovarsi dinanzi a Te” (Berakhot 60b). Nel Vayikra Rabbah, un commento sul verso iniziale di Tazria, le discussioni rabbiniche sulla gravidanza e la nascita riflettono il senso che la formazione ed il sostentamento del feto nel grembo sia qualcosa di miracoloso.

Ci si aspetta che ad una persona caschino le monete dal sacco se l’apertura del sacco è rivolta verso il basso. Ma quando il feto riposa nel ventre materno, il Santo lo protegge in modo che non esca e muoia… (Vayikra Rabbah 14:2)

Come riposa un bambino nel ventre materno? E’ avvolto come una tavoletta, la testa tra le ginocchia, le mani ai lati, i talloni contro le natiche, la bocca chiusa e l’ombelico aperto.  Mangia e beve quando lo fa la madre ma non espelle nulla altrimenti ucciderebbe la madre. Quando viene al mondo, ciò che era chiuso si apre, e ciò che era aperto si chiude. (Vayikra Rabbah 14:8)

In un mondo misterioso, vi è soggezione e meraviglia quando il corpo funziona come dovrebbe, ma vi è anche timore. Tazria-M’tzora, con le sue discussioni sui fluidi corporei e sulle malattie della pelle, riflette sia la soggezione che il timore che evoca il corretto e scorretto funzionamento del corpo. I suoi rituali, per quanto possono apparire strani, permisero agli individui di registrare alti e bassi della propria esistenza fisica. Questi rituali segnavano il loro ritorno non solo alla salute ma alla vita in comune.

Leggere questa parashah dopo aver vissuto una pandemia ci ricorda di quanto la vita sia fragile e di come la malattia possa portare ad un senso di interruzione e di isolamento. Ci ricorda che i rituali, per quanto essi siano misteriosi come il funzionamento del corpo umano, possono dare conforto al termine della malattia. Le condizioni discusse in Tazria-M’tzora si riferiscono a manifestazioni fisiche, ma possono anche valere in un contesto sociale ed emotivo. I rituali descritti in questa parashah vengono fatti sul corpo della persona, ma sono fatti per agire sulla sua mente, per rassicurarla che è nuovamente integra.

Forse anche noi dovremmo pensare a come un rito possa aiutarci nella riprenderci da un peso fisico ed emotivo affrontato l’anno scorso.

March 25:  Parasha Vayikra - Levicitus 1:1−5:26 (Copy)

Blog della URJ di questa settimana:  D'VAR TORAH BY: CANTOR JILL ABRAMSON

Passai un semestre in Cameroon, con la School for International Training. Vissi con una famiglia ospitante nella città di Dschang. La famiglia in questione aveva dei polli che tenevano come fonte di cibo. Un pomeriggio, prima di cena, eravamo nel giardino dietro la casa. La mia sorella ospite prese un pollo e lo macellò, tagliandoli la gola e dissanguandolo. La mia famiglia ospitante sacrificò questo animale in modo che io potessi mangiare, non mi dimenticherò mai quel pasto, nutrì sia il mio corpo che la mia anima.

Non ce la faccio a non pensare a quel pollo ogni volta che leggo le dettagliate descrizioni dei sacrifici animali nel Levitico. Ma questa settimana ho notato qualcosa di avvincente per ciò che riguarda un altro tipo di sacrificio. Questa volta è stata l’offerta di un pasto che ha catturato la mia attenzione, un’offerta che consisteva di farina, olio e incenso.

Il second capitolo di Parashat Vayikra,inizia con  "V'nefesh ki takriv korban mincha …" “Se una persona presenterà al Signore un'oblazione, la sua offerta sarà di fior di farina, sulla quale verserà olio e porrà incenso”, (Lev. 2:1). La parola ebraica nefesh qui viene tradotta come una persona, ma può anche significare “anima”.  

Gli studiosi credono che in origine la parola nefesh volesse dire “collo” o “gola” per poi assumere il significato di "linfa vitale", o anima, nel senso latino.

Ciò che possiamo dedurre dall’uso di nefesh in questo contesto? Perché il testo utilizza nefesh e non adam (persona) come nel primo capitolo del Levitico? In quel capitolo leggiamo: 

"Adam ki yakriv mikem korban l'Adonai..."
"Quando una persona presenterà al Signore un’oblazione di bestiame…”

Il commentatore medievale Rashi ci insegna che la parola nefesh viene usata per indicare l’oblazione di un pasto in modo da enfatizzare che queste oblazioni venivano offerte da persone dei ceti più bassi. Rashi prosegue nel dire che "in nessun altro passaggio la parola nefesh viene impiegata per descrivere offerte libere, tranne che quando si parla di offerte di un pasto. Poiché chi è che solitamente offre un pasto? Il povero! Il Santo, che Dio sia benedetto, dice: “Io considero questa offerta come se mi avessero offerto l’anima”.

L’insegnamento di Rashi mi fa pensare alla mia famiglia ospitante. Potevano solo permettersi alcuni polli, ma facevano fatica ad acquistarne altri, ed io ero grata che ne sacrificarono uno per me per darmi da mangiare.

Il Levitico parla di sacrificio. Che sia il macellare un pollo o il dono del grano, il vero sacrificio è quando diamo “tutto ciò che abbiamo”, quando diamo cuore e anima a questo gesto. Nella Torah, quando si parla di sacrifici, ci si riferisce ad una persona come ad “un’anima”, perché ogni sacrificio che facciamo in vita richiede una parte di noi stessi, una parte della nostra anima.

Alcuni anni fa, stavo parlando con una donna malata terminale nella mia congregazione. Condivise con me la sua paura di morire. Era un medico rispettato e mentre sapeva che il suo dolore era gestibile, aveva paura di ciò che sarebbe successo alla sua anima dopo la morte. Ci sedemmo nella sua cucina e pregammo: "L’anima che mi hai dato Dio è pura”. Trovò grande conforto nel sapere che l’essenza dell’anima è pura, e che in qualche modo quella purezza poteva diventare parte di una fonte eterna. 

Quando ci svegliamo ringraziamo Dio per averci restituito l’anima. Inoltre ringraziamo Dio per la purezza delle nostre anime come quando io pregai nella cucina della mia amica: "Elohai neshama shenatata bi," o " L’anima che mi hai dato Dio è pura”. Durante  kriyat sh'ma  recitiamo le parole del deuteronomio dichiarando che amiamo Dio “con tutto il nostro cuore e con tutta la nostra anima”.

In quanto cantore, gioisco del fatto che, tra le abilità che vengono attribuite all’anima, il salmista ci ricorda che essa è capace di cantare. Leggiamo nel trentesimo salmo: "Perché io possa cantare senza posa, Adonai mio Dio, ti sarò sempre grato.” (Ps 30:13)

La cantautrice Tracey Chapman ci ricorda che: "Tutto ciò che hai è la tua anima”. Questo è esattamente ciò che ci ricorda il Levitico. Il Levitico è un libro sfidante. Il sistema sacrificale è arcaico, intricato e sanguinoso. Ma secondo la tradizione ebraica, i bambini dovrebbero cominciare gli studi biblici con il Levitico. Ora sappiamo perché. 

Bernard J. Bamberger scrive: "Per secoli i bambini ebrei hanno iniziato i propri studi biblici con il Levitico. Questa scelta fu giustificata dalla contesa che giovani bambini puri dovrebbero apprendere la storia dei sacrifici che vennero offerti in purezza.”

I bambini dovrebbero imparare la lezione della purezza dell’intenzione e dell’anima. Di ogni anima. Se i bambini sono capaci di afferrare questo concetto, possiamo farcela anche noi. Io imparai tutto sulla purezza dell’anima nel vedere una bambina che fece un sacrificio con amore per me. Non è solo possibile ma è vero. L’anima che Dio ci ha dato è pura. 

15 Aprile: Sh'mini - Leviticus 9:1-11:47 (Copy)

Blog della URJ di questa settimana:  D'VAR TORAH BY: CANTOR JILL ABRAMSON

Le guide di pesca dell’isola Anna Maria in Florida lo avevano affettuosamente chiamato Jerry. Jerry era un airone bianco alto un metro che si appollaiava su  una vecchia trave di legno vicino alla riva. Spesso i pescatori davano a Jerry pezzi di esca che inghiottiva con gioia.

Incontrai Jerry durante un viaggio di famiglia in Florida e mi è venuto in mente nel leggere la parashah di questa settimana. La porzione in questione contiene una lista di uccelli che è proibito mangiare e che forma la base delle leggi della dieta ebraica.

La Torah dice: "Fra i volatili terrete in abominio questi, che non dovrete mangiare, perché ripugnanti" ed elenca 24 specie di uccelli proibiti. (Lev 11: 13-19).  Il Talmud indica che i rapaci, volatili che piombano sulla propria preda (ad es. avvoltoi, falchi ed aquile) sono in genere da considerarsi non kosher (Chulin 59a). Non sono sicura se Jerry fosse il tipo di uccello che piomba sulla propria preda o se sarebbe considerato kosher, ma so che certi tipi di uccelli nella Torah hanno un avvincente significato spirituale.

Certamente, la colomba (con un ramo d’ulivo nel becco) nella storia di Noè è un familiare simbolo di pace. L’arrivo della colomba significa il ritirarsi delle acque di piena e un periodo di calma e serenità. Gen. 8:11).

Idee sui volatili vanno oltre la Torah (ed il Talmud), e possiamo trovare queste idee nelle tradizioni mistiche ebraiche (sedicesimo secolo) e nei primi insegnamenti hasidici. Shoshanah Weiss, insegnante di Torah riassume le rappresentazioni mistiche degli uccelli in questo modo :

"Gli insegnamenti cabalistici spiegano che un uccello simboleggia il nome di Dio : la testa dell’uccello è come la lettera yud , del nome divino [yud-hey-vav-hey], il corpo dell’uccello è come la lettera vav e le ali sono simili alle due hehs. Nel Tanya (un libro sulla filosofia Chabad scritto da Rabbi Shnuer Zalman), viene scritto che le ali di un uccello rappresentano il timore e l’amore per Dio: l’ala sinistra è la forza, quella destra è la gentilezza. Nello Shaar Hayechudim di Chaim Vital, viene scritto che le ali di un uccello sono come le braccia di un uomo. Amore e timore elevano il compiere le 613 mitzvot."

Penso agli uccelli che migrano verso Israele e come le loro ali rappresentino sia timore che speranza. Vi sono diversi corsi migratori oggi, dall’Ucraina alla Polonia, gente che corre in apprensione e che rappresenta sia il timore che la speranza di poter trovare un luogo sicuro. Gente che cerca un rifugio, che cerca una nuova casa.

Il direttore del Israel's International Centre for the Study of Bird Migration, Dott. Yossi Leshem, spiegò come il cielo sopra Israele e Palestina sia la seconda rotta migratoria più utilizzata nel mondo dagli uccelli, dopo Panama. Ogni autunno, più di 500 milioni di uccelli attraversano lo spazio aereo israeliano, dirigendosi a sud verso un clima più caldo in Africa.

Questa migrazione di massa degli uccelli è diventata un’opportunità per cercare la pace tra i bambini in Medio Oriente. L’autore Avigayil Kadesh ha scritto di un programma di pace incentrato su questi uccelli: il progetto "Migrating Birds Know No Boundaries".  Parte di questo programma vede bambini israeliani, palestinesi e giordani partecipare in attività collettive nello studio degli uccelli. Mentre in altri casi questi bambini non interagirebbero, l’apprezzamento per i volatili li ha uniti.

La Torah insegna che possiamo imparare cose buone da ogni essere vivente. Come si può leggere in Giobbe 35:11: "Dio che a noi insegna piú cose che alle bestie dei campi e ci fa piú saggi degli uccelli del cielo.”

Il mondo degli esseri umani, che ora si trova in crisi a causa della guerra in Ucraina, potrebbe imparare un po’ di saggezza dagli animali dei campi e dagli uccelli del cielo.

Non so se Jerry migrerà, o se rimarrà con il suo stormo. Per ciò che riguarda noi umani, interagire con “nuovi stormi” è spesso l’opportunità di ampliare il nostro pensiero e sfidare i nostri presupposti. Perciò, lasciate il nido e spiegate le vostre ali.

18 Marzo: Parasha Vayak'heil - Esodo 35:1–38:20

Blog della URJ di questa settimana: D'VAR TORAH BY: BETH KALISCH

"Spero che siate pronti per gli uccelli!" urlò la nostra guida.

Eravamo appena arrivati in Tanzania per un safari e all’improvviso ero preoccupata di essere stata assegnata alla jeep sbagliata. "Oh, noi non siamo birdwatchers," spiegai. "Siamo qui per il safari classico—leoni, leopardi, rinoceronti- quel tipo di cosa." Stavo aspettando questa occasione per poter vedere alcuni degli animali più rari ed esotici sul pianeta. Ad esempio i leopardi sono famosi per essere difficilissimi da vedere, ed il rinoceronte nero è talmente raro che pare ce ne siano solo 5000 rimasti sull’intero pianeta.

"Ma ci piacciono anche gli uccelli,” disse mio marito alla guida. "Non vediamo l’ora di vederli.” La guida rispose: “Molte persone mi dicono, ‘Nicholas, siamo venuti fin qui per vedere i rinoceronti ed i leopardi! Non farci perdere tempo con tutti questi uccelli!”

Il giorno seguente capii perché certe persone volevano vedere queste creature alate quando Nicholas ci mostrò forse uno degli uccelli più belli che abbia mai visto. Le piume sulla schiena avevano il colore del piumaggio di un pavone, un insieme di blu, verde acqua e blu marino. Era piccolino- grande quanto un uccello canoro, con un petto come un pettirosso, un rosso-arancione vivace, occhi bianchi luminosi ed una testa nera. "E’ bellissimo," dissi. "Un superbo storno!" rispose Nicholas.

"Un uccello molto comune!” disse Nicholas. "Ne vederemo tanti!” 

E cosi fu infatti. Oltre ad alcuni bellissimi leopardi, un rinoceronte spettacolare ed altri animali fantastici, vedemmo diversi storni stupendi.  

Cose belle, colorate e rare sono il soggetto della porzione di questa settimana, Parashat Vayak'heil, che continua la lunga descrizione della costruzione del tabernacolo. Agli israeliti viene chiesto di portare i loro oggetti più preziosi: metalli preziosi, tessuti colorati, oli e spezie, gemme di ogni tipo, ed anche pelli di delfino (Exodus 35:5-9). Con tutti questi materiali, i fabbri della comunità crearono uno degli spazi fisici più preziosi : un luogo per far vivere Dio in mezzo al popolo.

Nelle porzioni precedenti, Dio diede tutte le istruzioni del caso a Mosè. Questa settimana, Mosè inizia a condividere queste istruzioni con gli israeliti. Quasi tutta la porzione di questa settimana è dedicata a queste istruzioni. Infatti, l’unica parte che non parla del tabernacolo ha luogo nei primi tre versi, quando Mosè ricorda agli israeliti le rigorose leggi dello Shabbat:

“Per sei giorni si lavorerà, ma il settimo sarà per voi un giorno santo, un giorno di riposo assoluto, sacro al Signore. Chiunque in quel giorno farà qualche lavoro sarà messo a morte. Non accenderete il fuoco in giorno di sabato, in nessuna delle vostre dimore”. (Esodo 35:2-3). 

Questa introduzione breve e apparentemente non correlata con il resto di questa porzione ha dato il là a diversi commenti per ciò che riguarda il rapporto fra Shabbat ed il tabernacolo. L’interpretazione più famosa si focalizza sul tema del lavoro, proponendo che la giustapposizione del divieto di lavorare durante Shabbat e la descrizione del lavoro fatto per costruire il tabernacolo indica un nesso: i tipi di lavoro descritti nel resto della porzione sono esattamente i tipi di lavoro vietati durante Shabbat.

Ma un’altra linea interpretativa di questa strana contrapposizione si focalizza sul tema condiviso della santità. Sia la costruzione del tabernacolo che il fatto di riposare durante Shabbat sono considerate attività sacre. Il motivo per cui Mosè menziona entrambi, concludono alcuni rabbini, è per enfatizzare l’importanza di Shabbat. Anche quando si tratta di lavoro sacro come quello fatto per costruire il tabernacolo, il lavoro non è permesso durante Shabbat.

Potremmo aspettarci l’opposto. Shabbat va benissimo, ma per gli israeliti a cui viene chiesto da Dio di costruire questo capolavoro, fatto di cose rare e preziose, è l’unica opportunità per costruire un luogo in cui Dio possa soggiornare. Verrebbe da pensare che una responsabilità di questo tipo possa avere precedenza su Shabbat. Invece no, Mosè dice al popolo: anche quando siete impiegati in una delle forme più rare di santità, questo edificio unico nella storia ebraica, una responsabilità comune che occupa un posizione significativa in Esodo, anche allora questa apparentemente banale santità di Shabbat regna sovrana.

Anche per quelli di noi che osservano Shabbat credo sia difficile sposare il concetto pienamente. Per la vostra famiglia potrebbe essere importante cenare durante Shabbat, tutti insieme ogni settimana, ma a volte possono succedere delle cose che paiono più urgenti. Prendersi del tempo per studiare la Torah o fare una passeggiata può sembrarvi il modo migliore per festeggiare Shabbat, ma a volte la vita si mette di mezzo. Anche oltre Shabbat, la nostra tradizione enfatizza l’importanza di occasioni speciali, i sacrifici che dovremmo fare durante questi periodi, e l’ammontare di denaro che dovremmo dedicarvi.

Certamente l’ebraismo ci insegna di dare valore alle occasioni speciali, e di darci appieno a questi momenti sacri. Ma, allo stesso tempo, la tradizione ebraica va contro il nostro impulso di disgregare i sacri ritmi dettati dalla vita in base a ciò che pare importante in quel momento. Il dare priorità a ciò che pare la santità regolare e comune che Shabbat rappresenta ha radici profonde nell’ebraismo. Tadir v'she'eino tadir, tadir kodem, dice il Talmud. "Quando bisogna scegliere tra ciò che è frequente e ciò che non lo è, ha precedenza la cosa frequente.” Una vita di santità non è fatta di momenti clou e speciali, ma dalla realtà in cui viviamo tutti i giorni.

E’ una cosa assurda e bella: la nostra è una religione dove il giorno più sacro ha luogo ogni settimana.

Se stiamo cercando solo leopardi, ci stiamo perdendo degli uccelli bellissimi. Questi momenti ordinari di santità, se siamo disposti a dare loro spazio, possono toglierci il fiato. Ovunque andiamo, ci assicurano che vi è sempre qualcosa di bello.

4 Marzo:  T'tzaveh – Parasha Esodo 27:20−30:10

Blog della URJ di questa settimana: D'VAR TORAH BY: RABBI SARAH BASSIN

Conosciamo tutti i pericoli del trasformare le persone in simboli. Ognuno di noi ha una sua storia di un eroe che ci ha deluso: quando leggiamo del nostro atleta preferito che si è dopato per ottenere la vittoria, o scopriamo di avere riso a delle battute di un comico stupratore o di un politico che ha fatto finta di essere monogamo. Oggigiorno questi esempi non ci sconvolgono più.

Ha un peso emotivo vedere la caduta dei nostri beniamini e con esse le nostre aspettative. Mettiamo in questione noi stessi. Forse siamo colpevoli noi nell’addossare degli standard morali ai nostri personaggi pubblici. Dopo tutto, questi personaggi diventano icone non per la loro leadership morale ma più per la loro capacità di fare gol, di farci ridere o di mantenere le promesse fatte in campagna elettorale. Vale la pena mettere queste persone sul piedistallo quando sappiamo che verremo delusi?

La nostra porzione di Torah dice di si.

In Parashat T’tzaveh, agli artigiani che costruiscono il tabernacolo e la menorah vengono date istruzioni su come creare il vestiario per i sacerdoti. Questo compito aggiuntivo attira l’occhio del commentatore Sforno. “Non solo devono costruire il tabernacolo, provvedere all’olio per la Menorah, ma devono anche creare i vestiti che indosserà Aronne” (Sforno su Esodo 28:3). Vi è qualcosa di significativo per Sforno nel fatto che gli architetti di un luogo sacro debbano anche creare degli abiti sacri. Quando gli artigiani creano il vestiario sacerdotale diminuisce la distinzione tra sacerdote e l’istituzione che essi servono.

Come per la costruzione del tabernacolo, i doni del popolo rappresentano la materia prima per il vestiario e gli accessori sacerdotali. Il nostro luogo di culto ha l’investimento del popolo; così anche il vestiario sacerdotale.

Il simbolismo è chiaro. Noi, il popolo, stiamo investendo il nostro tempo, i nostri soldi e la nostra speranza nei sacerdoti. Non deludeteci.

Utilizziamo il vestiario sacerdotale come modo per esprimere ciò che ci aspettiamo da loro. Nel suo libro, The Particulars of Rapture, Aviva Zornberg cattura ciò che si nasconde sotto la superficie del testo:

“Il vestiario investe i sommi sacerdoti sia di ansia che di gloria. Sostanzialmente, non è solo il vestiario che deve essere "Sacro a Dio," ma anche chi lo indossa. Se la dissonanza tra vestiario e chi li indossa è palpabile… i suoi valori si perdono.” (The Particulars of Rapture: Reflections on Exodus [NY: Doubleday, 2001], p. 369)

Va ripetuto. Se la dissonanza tra il vestiario e chi lo indossa è palpabile i valori del vestiario si perdono.” Se una persona fallisce nell’essere all’altezza della propria posizione, finisce per essere a repentaglio il potere che quella posizione rappresenta”.

In senso letterale vediamo che questi valori si perdono quando, nel decimo capitolo di Levitico, i figli di Aronne Leviticus Nadab e Abihu, che indossano abiti sacerdotali, fanno un’offerta (presumibilmente ubriachi). A causa delle loro azioni, Nadab e Abihu non muoiono semplicemente, i loro corpi vengono letteralmente consumati. Il testo sta praticamente dicendo che, quando la gente non soddisfa le aspettative della posizione che ricopre, la posizione occupata non va eliminata. “Che il vestiario rimanga intatto”.

In seguito ad uno scandalo, una delusione, o un tradimento, ci troviamo alla ricerca di qualcuno che prenda il posto di chi ci ha delusi. Il nostro dolore ed il nostro trauma può portarci a liberarci da quelle aspettative a prescindere.

Se sappiamo che politici, atleti e attori fanno cose reprensibili mentre indossano il vestiario della posizione che ricoprono, rimaniamo tentati dal non avere grandi aspettative. Forse non dovremmo impegnarci così tanto nel creare vestiti sacerdotali a prescindere. “Che facciano il loro lavoro” potremmo dire. “Non ho bisogno di sapere che tipo di persone siano aldilà del loro lavoro.”

E qui che troviamo il vero pericolo. Quando ci aspettiamo meno dai nostri leader, iniziamo ad aspettarci meno da noi stessi. Il ritmo dettato dai piani alti detta quello della cultura in generale. I nostri standard morali iniziano a scendere quando razionalizziamo la ricalibrazione della nostra bussola morale. Poiché ciò che tolleriamo dei nostri eroi tolleriamo in noi stessi.

Quando assistiamo ad atti criminali in pubblico, non possiamo ignorarli. Non possiamo adattarci ad un nuovo standard di vita. Dobbiamo tenerci strette le nostre aspettative, i nostri sacerdoti, i nostri politici, i nostri intrattenitori, i nostri atleti, i nostri rabbini.

Perché, alla fine, quelle aspettative non sono di chi ha il potere. Sono di noi stessi. Quando ci aspettiamo qualcosa di elevato dai nostri leader, è probabile che sia così anche per noi.

25 Feb :  Parasha T'rumah - Esodo 25:1−27:19  

Blog della URJ di questa settimana: D'VAR TORAH BY: RABBI SARAH BASSIN

Come ogni buon progetto architettonico, la porzione di Torah di questa settimana offre istruzioni precise. Parashat T’rumah espone un manuale sul come costruire il nostro luogo di culto nel deserto (Mishkan)  assieme a tutti gli strumenti in esso contenuto. Abbiamo misure precise, materiali e metodi di costruzione. Le istruzioni erano create per essere infallibili ed erano impossibili da interpretare male. Ma pare via sia una differenza tra il concetto originale ed il prodotto finito, almeno per ciò che riguardo un elemento molto importante : la menorah.

Più della stella di Davide, la menorah è il simbolo che è sempre stato sinonimo del popolo ebraico. E’ l’immagine centrale nel sigillo ufficiale dello stato d’Israele.

La porzione di Torah illustra le specifiche su come costruirla: quante braccia, di quali materiali dovrebbe essere composta, dove vanno messe le braccia e come dovrebbero essere decorate. E’ difficile immaginare con questo livello di dettaglio che la planimetria possa essere interpretata in un modo diverso dall’immagine che abbiamo oggi. Infatti, il sigillo moderno d’Israele è molto simile ad una delle rappresentazioni più antiche della menorah presente nell’arca di Tito a Roma. Quell’arca fu commissionata solo 12 anni dopo la distruzione del tempio, in modo che Roma potesse celebrare la conquista di Gerusalemme. E’ facile immaginare che forse la riproduzione artistica fu ispirata dall’aver visionato quella originale.

Poi 1100 anni dopo, Maimonide offrì una versione di come pensava fosse fatta la menorah secondo lui. In questo caso, le braccia sono diagonali dritte anziché curve come quelle dell’arca di Tito. Maimonide interpretò la menorah in maniera ben diversa da quella dell’arca di Tito. Inoltre, commentando Esodo 25:32, Rashi sembra essere d’accordo con Maimonide che le braccia siano diagonali dritte.

Va detto che sia Rashi che Maimonide sono considerati due giganti della tradizione ebraica medievale. Di certo non erano pigri o negligenti nella loro lettura del testo. Ma dopo un millennio dalla scomparsa del tempio, senza relazioni di prima mano su cui basarsi, questi giganti rabbinici dipendevano dalle istruzioni della porzione di Torah.

Probabilmente Maimonide e Rashi si sbagliarono. E non fu colpa loro. Nessuna parte della loro interpretazione sulle braccia diagonali contraddice il testo nella nostra porzione di Torah. L’ambiguità resta all’interno delle istruzioni originali. Nonostante i nostri antenati fossero sicuri di essere stati chiari con le loro istruzioni per le generazioni future, avevano un’idea in testa che non furono capaci di comunicare.

A volte ci troviamo in situazioni di comunicazioni incomplete che non sono così diverse. Ad esempio, una volta io supervisionai una prova dove i partecipanti dovevano sedersi schiena contro schiena a coppie; ogni coppia riceveva due buste uguali contenenti forme di carta. Un membro della coppia doveva creare un qualcosa con queste forme, poi l’altro membro della coppia, basandosi solo sulle istruzioni date dal suo partner, doveva replicare lo stesso progetto.

Inevitabilmente, quando vennero rivelati i risultati, coloro che avevano dato le istruzioni rimasero scioccati nel vedere versioni mutilate del loro progetto originale. Rimasero scioccati dal fallimento dei loro partner nella loro incapacità di ascoltare. Presto si resero conto che la colpa era in realtà loro per aver tralasciato alcuni dettagli chiave.

Questo esercizio ci insegna una lezione importante sulla sconnessione tra ciò che pensiamo di comunicare e cosa stiamo in realtà dicendo. Il fatto che i nostri antenati ebbero lo stesso problema nella creazione del nostro testo più sacro ci dà un po' di conforto. Se la costruzione del Mishkan ebbe un significato centrale per i nostri antenati, che non furono capaci di comunicare ciò alle generazioni future, pensate quante volte le nostre imprecisioni nel comunicare impattano il nostro lavoro e le nostre relazioni.

La lezione di base è prestare maggiore attenzione alla nostra comunicazione—cercare di essere più precisi. Tutti noi possiamo migliorare nel come comunichiamo con le nostre famiglie, i nostri amici e i nostri colleghi. Ma vi è una lezione ancora più importante, perché questi tipi di cattiva comunicazione sono inevitabili talvolta. La vera lezione si trova in come gestiamo i momenti di cattiva comunicazione. Siamo spesso certi di essere stati chiari. Rimaniamo scioccati quando qualcuno interpreta ciò che diciamo fuori contesto, male interpreta o non capisce. Potremmo trovarci pronti a dare la colpa a qualcun altro per non aver ascoltato attentamente.

Ma sapendo quanto sia difficile evitare una cattiva comunicazione, forse faremmo meglio a frenare il nostro giudizio quando ciò accade. E se non presupponessimo che sarebbe colpa dell’altra persona se qualcosa andasse storto? E se ci ponessimo il problema di comunicare meglio?  Ci sono momenti quando siamo dal lato proponente e altri in cui siamo ricevitori di una cattiva comunicazione. Indipendentemente da ciò, l’esperienza dei nostri antenati con la menorah ci invita a comprendere i limiti della nostra comunicazione. Forse questa storia sulla cattiva interpretazione della menorah può fungere da invito per maggiore umiltà nelle nostre conversazioni e nella nostra comunicazione.

18 Feb:   Parasha Mishpatim - Esodo 21:1−24:18

Blog della URJ di questa settimana: D'VAR TORAH BY: RABBI SARAH BASSIN

La religione è la fonte della maggior parte di atrocità che avvengono nel mondo. La religione ci rende persone migliori.

Quale delle due frasi è corretta?  Si può leggere qualsiasi testo sacro di qualsiasi fede e trovare passaggi che condonano o anche incoraggiano atti violenti. Ma si possono anche trovare passaggi che ci costringono a sforzarci ad aiutare gli altri e a vivere vite più compassionevoli. Apologisti religiosi fanno finta che i testi di terrore non esistono. Mentre nuovi atei fanno finta che i testi compassionevoli non esistono.

Diventa sempre più difficile ignorare un tipo di testo o un altro quando sono uno affianco all’altro. Troviamo esempi sia di testi di terrore che di testi compassionevoli nella porzione di Torah di questa settimana, Mishpatim. Da un lato ci viene ordinato di non maltrattare o schernire lo straniero (Esodo 22:20). Dall’altro, ci viene detto che Dio caccerà man mano tutti gli abitanti della terra (Esodo 23:30).

Ama lo straniero. Uccidi le nazioni. Parashat Mishpatim ci ricorda che la nostra tradizione non è così pulita come vorremmo credere. Ma prima di scoraggiarci per il fatto che ciò rende la religione inutile in gran parte, forse vi è una verità più profonda all’interno di questa giustapposizione.

Quando ci viene detto di non fare del male allo straniero, stiamo parlando di una persona. Dobbiamo prenderci cura di quella persona. Siamo capaci di provare compassione per un singolo individuo. Dopo tutto, possiamo conoscere questa persona. Una persona ha un volto e una storia.  Può avere fatto degli sbagli durante il corso della sua vita, ma la sua anima è buona. Dopo tutto una singola persona è complicata.

Invece un gruppo di persone è più facile da catalogare. Quel gruppo di persone è violento. Quel gruppo di persone è pigro. Quel gruppo di persone è bravo in matematica.

Quando ci troviamo davanti ad un individuo possiamo analizzare le sue complessità. Quando ci troviamo davanti ad un gruppo di persone la nostra capacità di avere compassione si sovraccarica, e ci basiamo su quella parte del nostro cervello che semplifica e categorizza. Vediamo un gruppo ma non siamo capaci di vedere degli individui.

Una singola persona rappresenta una storia. Molteplici persone sono una statistica.

Parashat Mishpatim ci offre una scelta: vedremo altre persone come lo straniero che dobbiamo proteggere, o li raggrupperemo e li vedremo come un collettivo da cui ci dobbiamo separare per proteggere noi stessi?

Esistono entrambi gli impulsi. Entrambi hanno uno scopo. In una società aperta e pluralista, preferiamo la retorica dello straniero rispetto a quella di distruggere le altre nazioni, ignorando il nostro bisogno di sicurezza. Se non abbracciamo tendenze conservazioniste, rimaniamo vulnerabili ad un attacco. E’ una triste verità che il nostro popolo conosce bene.

Ma se la conservazione diventa la totalità della nostra identità, cosa stiamo conservando?

Al fianco di questi due comandamenti, di prenderci cura dello straniero e di distruggere altre nazioni, la nostra tradizione riconosce le sue contraddizioni.

Semplifica eccessivamente il concetto che la religione è solo compassione o che la religione è la causa di tanto male.

In molti casi non abbiamo bisogno della religione per dirci ciò che e bene e ciò che è male. Conosciamo abbastanza umanisti laici che non hanno bisogno di Dio per vivere una vita morale.

Io invece direi che la religione in generale ci offre un contesto in cui andare contro ai nostri impulsi. Ci dà l’opportunità di assicurarci che il nostro istinto non ci stia inducendo in errore in un mondo sempre più complesso.

L’ebraismo ci dà l’opportunità di paragonare noi stessi a millenni di tradizione. Spesso, ci impegniamo ad essere migliori dei nostri antenati. A volte facciamo fatica a tener loro testa.

La nostra Torah funge più da specchio che da manuale di istruzioni. Siamo costretti a guardarci in un contesto di una lunga conversazione ed a capire se la nostra voce verrà ascoltata, non solo oggi ma nelle generazioni che seguiranno.

Nel darci insegnamenti morali contradditori, Parashat Mishpatim ci costringe a guardarci allo specchio e a chiederci non solo come ci rapportiamo agli stranieri ma anche chi vogliamo essere. Vogliamo trattarli come lo straniero e accoglierli con compassione?  Oppure è più prudente vederli come nazioni pericolose? Posso apprendere qualcosa dai saggi che mi hanno preceduto oppure la loro prospettiva è troppo limitata per essermi d’aiuto?

Trovare le risposte non è facile perché le domande non sono facili. Ma piuttosto che congratularci con noi stessi per qualsiasi decisione istintiva avessimo preso, forse non sarebbe male guardarci allo specchio e instaurare un rapporto con la nostra tradizione, come un’opportunità per analizzare noi stessi. Nessuna religione è perfetta. Ma la religione può essere estremamente efficace quando abbiamo bisogno di ricordarci che nemmeno noi siamo perfetti. 

Parasha –11 Feb:  Yitro - Esodo 18:1–20:23

Blog della URJ di questa settimana: D'VAR TORAH BY: RABBI SARAH BASSIN

Gli ebrei sono esperti di nostalgia…Ci ricordiamo della pittoresca vita in una shtetl isolata da estranei. Bramiamo la sovranità dell’antica Israele, dove eravamo padroni del nostro destino, indisturbati da altre nazioni.

Ma come ci ricorda Rabbi Rachel Adler: “non vi fu mai un periodo in cui l’antica regione israelita o l’ebraismo seguente non furono influenzate dalle culture e dalle religioni che incontrarono.”

Essere ebrei significa mescolarsi con gli altri. Nell’antichità ci demmo il nome ebrei, iv’rim — coloro che attraversano i confini. Per gran parte degli ultimi duemila anni abbiamo vagato per il mondo, adottando elementi delle culture ospitanti. Oggi affrontiamo la questione di un’assimilazione più completa della cultura dominante che ci circonda. In ogni momento siamo stati giudicati su come ci rapportiamo con gli altri. E ciò ci rende nervosi.

Potremmo desiderare il tempo in cui eravamo liberi da influenze esterne. Ma una nostalgia per questo tipo di epoca è una nostalgia inesistente.

Dovremmo smettere di vedere gli incontri con “l’altro” come qualcosa di problematico e vederli invece come opportunità. Come sarebbe se la storia che ci raccontiamo sull’altro fosse una in cui i nostri incontri ci rendono più forti?

Ci sono precedenti sostanziali per questa narrativa, con Mosè nella porzione di Torah di questa settimana, Parashat Yitro. Mosè fa fatica a guidare il popolo ebraico. Si sente esausto nell’ascoltare la litania di casi che gli vengono presentati in quanto unico giudice per l’intera comunità ebraica. Non riesce a risolvere la situazione né per sé stesso né per il suo popolo, e non sa neanche da dove cominciare. Il momento in cui incontra suo suocero midianita Yitro è un momento clou per Mosè. Egli raccoglie il consiglio di Yitro sul come strutturare la comunità israelita.

Yitro dice a Mosè, “Essi dovranno giudicare il popolo in ogni circostanza; quando vi sarà una questione importante, la sottoporranno a te, mentre essi giudicheranno ogni affare minore. Così ti alleggerirai il peso ed essi lo porteranno con te.” (Esodo 18:22-24).

Fu un sacerdote pagano a salvare la nostra comunità dall’implosione, dandoci un suggerimento che funzionava.

In quel momento, Mosè poteva rifiutare il consiglio di suo suocero. Dopo tutto, che conoscenza o credibilità ha un estraneo per ciò che riguarda la nostra comunità per dirci come gestirla?

Mosè ci insegna che l’incontro con “l’altro” può essere una risorsa volta alla nostra evoluzione e non un ostacolo alla nostra sopravvivenza. Questo incontro tra fedi rese Mosè un leader migliore. A volte abbiamo bisogno di un suggerimento dall’esterno per mostrarci ciò che è possibile per noi.

Io stesso ebbi il mio momento “Yitro” alcuni anni fa. Nel Dicembre del 2015, assistetti ad uno studio biblico presso la chiesa Emanuel AME Church a Charleston (Carolina Del Sud), sei mesi dopo un attacco suprematista che causò la morte di nove membri di quella comunità. Rimasi scioccato nel vedere una chiesa unita nel perdono. La loro forza veniva dal fatto che Gesù perdonò i suoi aguzzini. La comunità applicò questo modello alle loro vite per perdonare un assassino. Si rifiutarono di permettere che l’odio potesse pervadere i loro cuori.

Ero invidioso di questa disposizione spirituale al perdono. Mi fece rendere conto della assoluta trascurabilità del rancore che serbavo per torti che mi erano stati fatti.

Quella comunità cristiana facilitò una svolta spirituale a cui non sarei arrivato da solo. Mi fece prendere maggiormente sul serio il linguaggio del perdono che già esiste nell’ebraismo. Consultai dei testi ebraici, mi misi a studiare. Feci del mio meglio per implementare dei cambiamenti nella mia vita. Un incontro con dei cristiani mi rese un ebreo migliore. 

Nel corso del mio lavoro interconfessionale ho assistito a diversi incontri stile Yitro. Ho visto ebrei desiderare un rapporto maggiormente personale con Dio, come viene naturale a molti musulmani. Ho visto musulmani desiderare una cultura del dibattito a livello di testi sacri, come gli ebrei. Questo fenomeno è una sorta di “invidia sacra”.  Il concetto è che le nostre vite e la nostra tradizione possono essere arricchite dall’imparare dalla fede, dalla spiritualità e dalle azioni dell’altro.

 Ci siamo abituati a raccontarci storie negative sul nostro rapporto con l’altro. L’altro ha cercato di sconfiggerci, di espellerci e di ucciderci. Storicamente vi è verità in tutto ciò, ma è solo la metà della narrativa.  Credo che possiamo beneficiare del bene che viene taciuto e che risulta dai rapporti con l’altro.

Il rapporto di Mosè con Yitro ci ricorda che una trasformazione per via dell’altro non è estranea alla nostra tradizione. Rappresenta il nucleo fondativo su cui venne costruita la nostra comunità. Per troppo tempo ci siamo raccontati che “l’altro” fosse fonte di timore. Quel timore ci ha reso ciechi alla possibilità di aver bisogno “dell’altro” per essere ebrei migliori.

Parasha – 4 Febbraio:  B'shalach - Esodo 13:17−17:16

Blog della URJ di questa settimana: D'VAR TORAH BY: RABBI SARAH BASSIN

Se noi ebrei credessimo all’inferno, Amalek avrebbe lì un posto speciale.

Dato che non ci crediamo, ci assicuriamo che ogni generazione cancelli il nome di Amalek.  Questo è un livello di sdegno che riserviamo solo per il peggio del peggio. Amalek si trova in cima alla lista dei nostri nemici. Ma chi era Amalek e perchè è oggetto della nostra ira?

Leggiamo di Amalek in Parashat B’shalach. Dato che fu il primo ad attaccare gli israeliti una volta liberi dall’Egitto e già vaganti nel deserto, Amalek ottenne un certo livello di notorietà. Ma essere il primo di una lunga serie non lo rende particolarmente degno di nota. In M’chilta D’Rabbi Yishmael, Rabbi Eliezer di Modi’ propone che il nostro disgusto ha le sue origini nelle tattiche utilizzate in battaglia da Amalek. “si intrufolò” sotto i bordi di una nuvola, strappando le anime di Israele e uccidendole”, “Quando eri stanco e affaticato, [l’esercito di Amalek] ti si sarebbe parato davanti, attaccando tutti coloro che erano rimasti indietro; senza timore di Dio” (M’chilta D’Rabbi Yishmael, Amalek, on Exodus 17:8).

Il nostro disprezzo per Amalek è profondo poiché se la prendeva con i deboli. L’indignazione morale verso coloro che sfruttano i più vulnerabili è applicabile anche alla società odierna. Abbiamo un particolare disprezzo per coloro che abusano di bambini, anziani e popoli vulnerabili come i profughi.

Eppure, anche se ci viene detto di disprezzare Amalek, ci viene detto di non eccedere nella nostra indignazione morale. Quando combattiamo contro Amalek, lo facciamo con un vantaggio morale che lui non possiede.

Quando Giosuè conduce il nostro popolo nella lotta contro Amalek, egli ha il beneficio di un intervento divino. Finché Mosè tiene in alto le braccia, la vittoria è garantita a Giosuè.

“ Giosuè indebolì Amalek e il suo popolo passandoli poi a fil di spada.” (Exodus 17:13). Data la situazione favorevole, è curioso quanto le azioni di Giosuè siano mitigate. Ci aspettiamo un totale annichilimento, e la parola “indebolì’” (chalash) sembra quasi leggera per una lotta contro uno dei nostri nemici più odiati.

Se quest’uomo è il peggio del peggio, perché non viene completamente distrutto da Giosuè? Rashi ci spiega cosa vuol dire l’indebolimento dell’esercito di Amalek : “Giosuè tagliò le teste agli uomini forti e lasciò in vita solo i deboli” Giosuè non li uccise tutti, risparmiò gli uomini deboli, così facendo Amalek venne indebolito e reso impotente dall’arrecare altri danni.

Giosuè fa l’opposto di Amalek. Non va contro i deboli. Si concentra su coloro che rappresentano una minaccia. Mutila l’esercito solo quanto basta per assicurare la vittoria agli israeliti.

Ciò che è affascinante è che Rashi attribuisce questa timida reazione direttamente a Dio. “Da questo possiamo apprendere è che agirono secondo il volere di Dio”

Se Dio non fosse intervenuto, Giosuè e gli israeliti avrebbero ucciso tutti indistintamente. Gli israeliti sarebbero stati responsabili per la morte di bambini, anziani e di altri innocenti.

Avevamo bisogno dell’aiuto di Dio per vincere. Inoltre avevamo bisogno dell’aiuto di Dio per evitare di diventare ciò che disprezzavamo nella nostra lotta per la vittoria.

Quando ci troviamo in un conflitto, quanto è facile ignorare tutto il resto tranne il fatto di vincere? Quante volte abbiamo detto o fatto cose di cui ci siamo pentiti perché eravamo concentrati sul non perdere? Quelle azioni potrebbero essere il frutto di una certezza morale, la certezza di avere ragione. Ma vi è un lato oscuro nella certezza morale. Se non controllata, ci può accecare sul lato umano dei nostri avversari. Possiamo finire per perdere la nostra moralità nella nostra lotta al mantenerla.

E’ per questa ragione che Dio rimprovera gli angeli quando questi gioiscono dell’annegamento degli egiziani (Babylonian Talmud, M’gillah 10b). E’ per questa ragione che minimizziamo la nostra gioia nel rimuovere una goccia di vino dal nostro bicchiere durante il seder di Pesach, ciò enfatizza la sofferenza degli egiziani.

 Dio ci ricorda che il nostro obiettivo non dovrebbe mai essere la sconfitta di un altro. Se la sconfitta di qualcuno risulta nella nostra sopravvivenza, cosi sia. Ma la vittoria come unico obiettivo è fuorviante.

Come vinciamo è altrettanto importante quanto vincere o meno. Non dovremmo perdere di vista l’umanità del nostro nemico, poiché cosi facendo rischiamo di perdere la nostra.

Parasha – Va-eira, Exodus 6:2−9:35, Sh'mot Exodus 1:1−6:1 - 21 gennaio 2023

Blog della URJ di questa settimana:

D'VAR TORAH BY: RABBI HILLY HABER

Nella Parshat Va-eira assistiamo alla propagazione del messaggio di libertà di Dio in tutto l’Egitto, messaggio che viene ignorato, disprezzato sia dagli israeliti che dagli egiziani. Assistiamo a come la persuasione morale, la resistenza pacifica, e la parola di Dio falliscano nel creare libertà e la fine dell’oppressione. Nella scia di questo fallimento, Dio invia 10 piaghe al faraone e agli egiziani, le cui prime 7 compaiono nella porzione di questa settimana. Come dobbiamo interpretare la divina violenza verso l’Egitto? Come possiamo comprendere e valutare la funzione delle azioni di Dio alla luce dei movimenti storici per la libertà e la liberazione?

In un discorso del 1843 intitolato, "Discorso Agli Schiavi Degli Stati Uniti” Henry Highland Garnet, un ministro abolizionista, oratore e scrittore nato in schiavitù, parlò ad un pubblico nazionale che si era trovato a Buffalo, New York. Nel suo discorso Garnet chiese ad un popolo schiavizzato di insorgere e di ribellarsi contro l’istituzione della schiavitù. Rompendo con abolizionisti sia neri che bianchi, i quali si affidavano ad una serie di tattiche di persuasione morale volte alla liberazione, Garnet rievocò eventi storici come la guerra rivoluzionaria e la rivolta haitiana come prova dell’efficacia di una resistenza armata nella lotta per la libertà. Anche se potente, la chiamata alle armi da parte di Garnet fu ascoltata solo più tardi dalla maggioranza dei suoi colleghi abolizionisti. Nel decennio seguente, secondo lo storico Kellie Carter Jackson, vi furono eventi quali il  Fugitive Slave Act del 1850, l’espansione dello schiavismo ad Ovest, ed una serie di decisioni legali che portarono molti difensori di una resistenza pacifica ad abbracciare gli ideali di Garnet.

Questo momento storico pone diverse domande non solo sull’efficacia di una violenza extra legale per portare a un cambiamento, ma in modo più specifico sull’etica e la funzione della violenza. Quando Garnet chiama all’adunata i suoi fratelli e le sue sorelle, ancora schiavi, ad agire illegalmente verso coloro che li hanno schiavizzati legalmente, si evidenzia un rapporto corroborante tra violenza e legge. Nella sua tesi “Critique of Violence”, il filosofo Walter Benjamin etichetta il nesso tra violenza e legge come “violenza mitica”, che è in contrasto con ciò che chiama “violenza divina”.

"Violenza Mitica”, scrive Benjamin "è dominazione sanguinosa della vita per preservare la vita; la violenza divina è pure potere sulla vita volta al vivere.” La violenza mitica porta con sè tante vittime. Si affida a forme profonde di violenza, in modo da mantenere sicuro un sistema oppressivo. La violenza divina ha come obbiettivi sistemi e rapporti di potere. Ted Smith, un eticista, offre un esempio attuale:

La divina violenza del movimento per i diritti civili, ad esempio, ruppe il sistema di relazioni che sostenevano un tipo pernicioso di segregazione negli Stati Uniti. La rottura di quel sistema portò ad una rivoluzione morale che in sé non fece vittime. Ma venne accompagnata da…il sangue che sgorgò dai corpi di coloro che marciarono lungo l’Edmund Pettus Bridge nel 1965, il sangue che sgorgava per le strade di Newark nel1967, ed in molte altre occasioni. Potremmo offrire diverse valutazioni morali di questi eventi, ma nessuna di queste ha a che fare con la violenza divina. Detto questo, la violenza divina è profondamente legata a tutti questi eventi. Poiché questi eventi furono il risultato della rottura di un sistema di relazioni.

Nonostante la violenza divina non faccia vittime, presenta il costo di vite umane, che sono il risultato di una violenza mitica. E la sua funzione, come scrive Benjamin, è espiazione, riconciliazione e guarigione tramite l’esposizione e la distruzione di sistemi violenti ed oppressivi.

Tornando a Va-eira: Qual è il contesto e la funzione della violenza divina nella parshah di questa settimana? Come funziona e cosa ci dice della violenza in Egitto? Quando Mosè dice agli israeliti che Dio li redimerà dall’Egitto, gli israeliti non vogliono e non possono ascoltare le parole di Mosè. Sono incapaci di sentire, ci dice il testo, a causa del loro kotzer ruach (Esodo 6:9), una letterale mancanza di fiato. E’ come se le parole "Non riesco a respirare " echeggino in tutto l’Egitto.

E non sono solo gli israeliti a resistere al messaggio di libertà di Dio. Quando la parola di Dio fallisce nel portare la liberazione, Dio agisce. Dio trasforma le acque del Nilo in sangue (Exodus 7:17-22).  Un commentatore nota che Dio scelse di fare ciò perché gli egiziani avevano buttato i figli d’Israele in quelle stesse acque (Midrash Mishnat Rabbi Eliezer 19).  La prima piaga divina mostra che le mani degli egiziani erano insanguinate.  

Nella parshah di settimana prossima, leggiamo della decima e ultima piaga : la morte di tutti i figli primogeniti egiziani. Il numero di morti di questa ultima piaga indica i modi in cui la violenza divina esiste al di fuori di una valutazione etica. L’eticista Ted Smith, chiarisce:

“Ciò che Walter Benjamin chiama 'violenza divina'—era sia al di sopra che al di sotto dell’etica come la consideriamo oggi. Quando i vecchi standard vengono distrutti e standard nuovi non sono ancora stati stabiliti, non è chiaro come si possa fare alcun tipo di valutazione etica. (Weird John Brown; Divine Violence and the Limits of Ethics).”

Oltre alle questioni di giusto o sbagliato, terminare le vite di tutti i primogeniti maschi egiziani (Exodus 11:5) non solo disgrega i rapport di potere e di successione egiziana ma mette in luce i sistemi che resero complici di oppressione tutti i figli egiziani (Mekhilta d'Rabbi Yishmael 12:29).

E’ impossibile leggere Parshat Va-eira senza considerare il nostro presente. Viviamo nella scia di una rivoluzione in corso iniziata dalle parole: “Non respiro.”  Lo studio di Esodo non è un esercizio teorico; è un richiamo all’azione ed alla resistenza. Come ci ricorda l’abolizionista Henry Highland Garnett, "Che tipo di resistenza va fatta? Dovete decidere in base alle circostanze che vi circondano.”

Parasha – Sh'mot Esodo 1:1−6:1 - 14 gennaio 2023

Blog della URJ di questa settimana:

D'VAR TORAH BY: RABBI HILLY HABER

Creami una tomba dove vuoi,
In un umile pianura, o su una elevata collina,
Rendila una delle tombe più umili della terra,
Ma non in una terra dove gli uomini sono schiavi.
-Frances Ellen Watkins Harper (Bury Me in a Free Land)

Nel corso di 40 capitoli, il libro Esodo racconta la storia del sentiero che porta dalla schiavitù alla libertà, dalla libertà alla rivelazione. E’ una canzone di speranza che riverbera, nel corso delle generazioni, la promessa di libertà e di una trasformazione sussurrata nelle orecchie di coloro che vivono sotto il peso dell’oppressione. In Parashat Sh'mot, incontriamo il Dio dell’Esodo: un Dio che ha a cuore la vita, porta alla liberazione, e infonde nuova speranza e possibilità nel mondo. Come scrive il teologo James Cone, "Secondo la tradizione Esodo-Sinai יהוה viene rivelato come il Dio della storia, la cui rivelazione è identica al potere che Dio ha di liberare gli oppressi. Non vi è nessuna conoscenza di יהוה tranne che attraverso l’attività politica di Dio per conto dei deboli e gli impotenti della terra” (Dio Degli Oppressi). Esodo ci dice che vi è una forza al lavoro nel mondo più grande del decreto del faraone ed il messaggio di Dio è chiaro :  “Coloro che sono nati schiavi, non devono morire in schiavitù.”

Parashat Sh'mot  si apre con un resoconto della vita sotto un regime oppressivo e violento. Impariamo che gli israeliti vennero spogliati dei loro diritti e messi ai lavori forzati. Impariamo che il faraone voleva eliminare la possibilità di future vite e con essa la possibilità di un futuro per gli israeliti al di fuori dell’Egitto. La tradizione ebraica immagina che gli astrologi egiziani predissero al faraone che il liberatore degli israeliti sarebbe nato il giorno in cui nacque Mosè. Per prevenire quindi una redenzione israelita, il faraone ordinò l’annegamento di tutti i figli maschi.

 

Nel primissimo capitolo di Esodo apprendiamo che l’Egitto è un luogo di schiavitù e di disperazione, dove si conduce una vita priva di speranza e all’ombra della morte. Questo è lo sfondo in cui Dio compare nella storia.

Dio sente gli israeliti piangere di dolore e ordina a Mosè di recarsi dal faraone e richiedere la loro libertà. Quando Mosè chiede a Dio a nome di chi dovrebbe fare questa richiesta, Dio rivela un nuovo nome :  : Ehyeh-Asher-Ehyeh (Esodo 3:14). Derivante dal verbo “essere”, il nome di Dio può essere tradotto in una dichiarazione di un essere eterno e di auto - determinazione: "Io sono colui che sono” oppure "Sarò quello che sarò” . Ovadia ben Jacob Sforno, un rabbino e filosofo italiano del sedicesimo secolo, trova un’importanza teologica nel nome di Dio : “Se Dio viene nominato per la vita, allora Dio deve amare la vita e perciò deve odiare qualsiasi cosa o chiunque minaccia la vita.” Il Dio della vita, di autodeterminazione, è giunto per proteggere e salvare la vita. Quando Mosè torna in Egitto e annuncia il nome di Dio al faraone, la tradizione ebraica immagina che il faraone avesse consultato i suoi archivi, cercando invano qualcosa sul Dio di Mosè. I rabbini paragonano il faraone nella sua ricerca a qualcuno che si reca in un cimitero per trovare una persona non ancora morta. Si chiedono: "Pensi di trovare i vivi tra i morti?”

Quando Mosè annuncia la presenza di Dio in Egitto, parla di un nuovo ordine mondiale, che minaccia di capovolgere la gerarchia faraonica. In Egitto, alcune vite valgono più di altre. Il Dr. Cone indica che in Esodo si apprende che :  "La liberazione non è una proposta teorica, da discutere in un seminario filosofico o teologico. E’ una realtà storica, nata dalla lotta per la libertà in cui un popolo oppresso riconosce di non essere stato creato per essere preso, barattato, o messo all’asta.” Inerente al nome di Dio, nell’ordine mondiale di Dio, vi è una dichiarazione teologica che trova le proprie radici nella sacra dignità di ogni essere umano.

Questa etica di liberazione e di vita fa parte della nostra tradizione e dei nostri testi, comparendo e ricomparendo come fonte di una conoscenza storica e teologica nata da esperienza e memoria storiche. Per coloro che si trovano oppressi dal potere, Dio offre una visione e una speranza di una vita oltre l’Egitto, una vita in cui tutti possono prosperare, fiorire e morire liberi.

Parasha – Vayechi, Genesi 47:28–50:26 - 7 gennaio 2023

Blog della URJ di questa settimana:

D'VAR TORAH BY: RABBI MICHAEL DOLGIN

 Trovo difficile credere che siamo arrivati all’ultima porzione di Genesi! A questo punto le matriarche ed i patriarchi sono come vecchi amici: li abbiamo visti celebrare e portare il lutto, ridere e piangere, abbracciarsi, baciarsi e combattere. Questo libro ci ricorda che facciamo parte della famiglia ebraica e umana e, come altre famiglie, la nostra è complicata e idiosincratica.  La Genesi è un libro di temi ricorrenti e Parashat Vayechi non fa eccezione.

Questa ultima parashah arriva durante un potente momento nazionale e personale.  Il popolo d’Israele sta per diventare proprio questo: un popolo. L’esperienza in Egitto, con tutte le sue peripezie tra schiavitù e redenzione inizia nella parashah di questa settimana. Detto questo, l’aspetto personale della Genesi sembra dominare la sua conclusione e rappresenta la sua forma basica.

Considerate la scena che ha luogo verso la conclusione della parashah. Giuseppe presenta i suoi due figli, Efraim e Manasse, a suo padre Giacobbe/Israele. Giuseppe fa attenzione a posizionare il maggiore dei due, Manasse alla destra di Giacobbe ed Efraim, il più giovane, alla sinistra. Giacobbe poi incrocia le mani, utilizzando la sua destra su Efraim e la sua sinistra su Manasse. Con le mani in questa posizione inconsueta, Giacobbe benedice Giuseppe, che sembra notare la strana posizione solo dopo essere stato benedetto.

Giuseppe poi dice al padre che sta benedicendo i suoi nipoti in maniera errata, essenzialmente cercando di controllare la situazione, ma suo padre sventa i suoi tentativi. Giacobbe conferma che ciò che sta facendo non è un errore e poi benedice i suoi nipoti nel modo in cui il popolo d’Israele benedice i propri figli: che Dio ti renda come loro, come Efraim e Manasse.

Tutto ciò è familiare: il patriarca che non ci vede più chiaramente; la presentazione di due figli allo stesso tempo; la generazione precedente che benedice la generazione attuale in modo non convenzionale; il rifiuto di dire qualcosa subito, scegliendo invece di tenere a mente la situazione; il genitore che cerca di controllare la benedizione famigliare mentre la sua fonte non è disposta ad essere guidata; l’apparente confusione di identità o di primogenitura.

Abbiamo già visto tutte queste tematiche in passato, tranne una: Giacobbe dice ad alta voce che sta incrociando le mani di proposito. Il ciclo di un conflitto inconscio viene spezzato con poche parole. Solo allora Giacobbe dice che questo è come benediremo la nostra discendenza. Forse ciò significa che dobbiamo essere aperti e premurosi per ciò che riguarda le benedizioni che offriamo, dobbiamo capire che non possiamo sempre controllare le situazioni in cui ci troviamo. Detto questo, nonostante tutto ciò dobbiamo avere il coraggio di andare avanti e offrire una benedizione.

Può darsi che la benedizione offerta al nostro popolo sia legata all’introduzione di questa scena data da Giacobbe. Nel verso 11, Giacobbe appare pensare che non avrebbe più visto il volto di Giuseppe, mentre qui ha l’opportunità di vedere i figli del suo figlio prediletto.  Forse questa è la vera benedizione quando usiamo queste parole. Nel ricordare l’intero libro della Genesi, con le sue complessità ed i suoi enigma, il testo ci ricorda che dobbiamo sempre essere speranzosi.

Dobbiamo sperare che coloro che abbiamo perso non siano completamente scomparsi; che la famiglia ci può sorprendere in maniera positiva.

Dobbiamo sperare a benedizioni disponibili anche quando siamo sicuri che la porta della santità e della bontà è ormai chiusa.

Dobbiamo sperare che riusciremo a vedere le generazioni che ci succederanno, che siano biologiche o meno, e che queste agiscano secondo gli ideali ed i valori che ci stanno a cuore.

Dobbiamo sperare che anche quando noi e coloro che amiamo sbagliano, ne possano scaturire ancora delle possibilità dolci o agrodolci.

 

Ogni anno trovo difficile dire addio a questi vecchi amici, le nostre matriarche ed i nostri patriarchi.  Ciò nonostante, vi è un tema ricorrente: ogni anno i membri della mia famiglia distante mi sorprendono. Le loro storie mi impartiscono nuove lezioni e offrono notevoli intuizioni. Sono grato a  Rabbi Rick Jacobs e la  Union for Reform Judaism per avermi invitato a condividere i miei pensieri con voi su questo libro profondo. Dopo aver osservato i suoi sacri testi più attentamente e dalle vostre risposte, cari lettori, ho imparato molto.

Che questo libro vi possa ispirare a continuare ad imparare e ad osservare più attentamente le sacre parole che pensavamo di aver compreso. Chazak, chazak, v’nitchazek, che possiamo crescere più forti e ottenere forza dalla nostra Torah e da ciascuno di noi.

Parasha – 31 Dicembre – Vayigash - Genesi 44:18−47:27

Blog della URJ di questa settimana:

 

La storia di Giuseppe è fatta di eroismo, perdono e redenzione. La sua storia non è fatta di vittimizzazione e sconfitta.  Giuseppe è un sognatore, un visionario, un uomo saggio e nulla del ricevuto male ha soffocato ciò. I suoi sogni sono premonitori e diventano realtà. Diventa re di una terra e riesce a superare sette anni di carestia. Giuseppe non usa la sua posizione di potere per vendetta ma per applicare riforme agricole che salvano l’Egitto.

Egli è anche un potente insegnante di quella forza elusiva, complicata e di trasformazione che chiamiamo perdono. Anche se vittimizzato, Giuseppe non è una vittima. Anche se viene estraniato dalla sua famiglia, non si dimentica delle proprie radici. Anche se viene ridicolizzato per i suoi doni, continua a nutrire le sue abilità uniche. Giuseppe diventa l’eroe della propria vita e perciò eroe del nostro popolo.

Il perdono è un processo complesso. Non siamo mai obbligati a condonare un cattivo comportamento. Quando si presente un’azione o una parola o una manipolazione o un’offesa , non siamo obbligati a dire che va bene o che non ha importanza. Non sempre il perdono porta alla riconciliazione.  A volte quando un rapporto interpersonale è difficile, ostile o tossico, perdoniamo e ce ne andiamo-non perché chi ci offende se lo merita ma perché è cosi. Non ci scordiamo e non perdoniamo.

Il ricordo fa parte della nostra tradizione. Quando vogliamo onorare una persona che non c’è più diciamo “che il suo ricordo sia una benedizione”.  Quando ci ricordiamo di una persona che ha commesso delle atrocità, diciamo “che il suo ricordo sia cancellato”.  I mali del mondo vengono ricordati in modo che possiamo imparare ad essere migliori, in modo che possiamo riservare un posto di amore nei nostri cuori per le vittime, che possiamo essere più saggi nell’identificare quando il male alberga tra di noi. No, non ci dimentichiamo.

Eppure, nonostante le complessità, difficoltà e rabbia, è meglio trovare una via verso il perdono. Il perdono è un dono che diamo a noi stessi. Iniziamo a liberare la rabbia ed il risentimento che occupano cosi tanto spazio nella nostra anima. Con il perdono iniziamo il lungo processo di guarigione. Quando è possibile e appropriato, è meglio vivere con morbidezza piuttosto che con durezza lasciare andare piuttosto che stringere, e aprire i nostri cuori alla bellezza del nostro mondo.

Questo è ciò che sceglie di fare Giuseppe. E’ la carestia che porta i suoi fratelli presso la corte di Giuseppe in Egitto. Ma è il perdono che unisce i cuori dei fratelli. In una storia elaborata fatta di intrigo e travestimenti, Giuseppe mette i suoi fratelli alla prova. Non lo riconoscono. In seguito Giuseppe rivela la sua identità in una catartica resa dei conti, che porta alla riconciliazione.

“Giuseppe non poté più contenersi davanti a tutto il suo seguito, e gridò «Fate uscire tutti dalla mia presenza!» Nessuno rimase con Giuseppe quando egli si fece riconoscere dai suoi fratelli. Alzò la voce piangendo; gli Egiziani lo udirono e l'udì la casa del faraone. (Gen 45:1-2).

Molti di noi hanno pronunciato quel grido primordiale nel cuore della notte. Preghiamo di essere ascoltati, di essere visti e di essere compresi. Giuseppe non soffoca la propria ansia. La via verso il perdono e la riconciliazione passa attraverso il dolore che alberga nel suo cuore.  E poi Giuseppe fa una domanda sorprendente: “Giuseppe disse ai suoi fratelli: «Io sono Giuseppe; mio padre vive ancora?» “ (Gen 45:3).  Inizialmente questa domanda può sembrare retorica, poiché sa che suo padre è ancora vivo. Forse si sta chiedendo se il nesso che una volta univa lui ed i suoi fratelli è ancora vivo. Il nesso tra il nostro passato e di conseguenza il nostro destino ebraico è ancora vivo? Tutto è perduto a causa dei peccati del passato o una riconciliazione è ancora possibile? Ha'od avi chai, mio padre vive ancora?

La via verso il perdono e la riconciliazione è difficile. Giuseppe non è conscio che ciò che successe fu il destino perpetuantesi nella sua storia personale. “Ma ora non vi rattristate, né vi dispiaccia di avermi venduto perché io fossi portato qui; poiché Dio mi ha mandato qui prima di voi per conservarvi in vita.” (Gen 45:5-7).

Una liberazione straordinaria. Il perdono richiede una decisione di vivere con meno dolore, meno rimpianti e molto amore – perché tutti ci sforziamo per vivere una vita più dolce.

INCROCI PERPETUI

Cammino piano su una strada di legno e umida.
Perlopiù guardo giù
e vedo che la terra sotto ai miei piedi
è fatta di terriccio soffice, muschio dolce,
e ovviamente foglie cadute, che,
come angeli, sono cadute a terra
formando una strada illuminata nel bosco.

E per ogni burrone incontrato,
per ogni fiume burrascoso o valle profonda,
compare un ponte.
Sembra che vi sia sempre
un via per attraversare,
un modo per superare la paura, la tristezza,
la delusione.
Vi è sempre una via.

Forse il bene è quel ponte, oppure la bellezza è quel ponte.
L’amore è quel ponte.

Il perdono è quel ponte.

Di questo sono sicuro:
la via è eterna –è la nostra vita e la lunghezza dei nostri giorni.

Ed il ponte è eterno-
ci sono molti modi per attraversare ciò che pare impossibile.
Sassi nel fiume, corde sospese, assi di legno,
archi di acciaio di amore, pazienza, accettazione
e perdono.

RABBI KARYN D. KEDAR

Parasha – 24 Dicembre – Miketz - Genesis 41:1−44:17

Blog della URJ di questa settimana:

Imparare, commentare e reagire agli insegnamenti della Torah sono un’esperienza personale, o almeno lo dovrebbe essere. Come tutti i libri della Torah, il nostro rapporto con Genesi diventa più profondo ogni anno che la rivisitiamo. Per me, una parte significativa di Genesi è Parashat Mikeitz.

Durante il mio primo anno di studi rabbinici presso la Hebrew Union College-Jewish Institute of Religion (HUC-JIR) a Gerusalemme, diedi il mio primo d’var Torah su Mikeitz, concentrandomi sulla storia di Giuseppe. Vivendo a Gerusalemme quell’anno, comprai la mia prima copia di Mikraot Gedolot, una stampa della Torah contenente i commenti tradizionali, e durante l’inverno del 1987, mi sedetti in compagnia di questo volume sacro e mi misi a riflettere su questa parashah.

Le sue parole iniziali sono “sh’natayim yamim” – o “al termine di due anni” – mi ispirò a parlare dell’importanza del riflettere sui nostri giorni durante questo periodo buio dell’anno e sfruttare al massimo i giorni che ci attendono. Seduto nel mio appartamento a Gerusalemme, tenendo tra le braccia questo libro e cercando un insegnamento da condividere con i miei compagni, non mi sarei mai immaginato cosa sarebbe accaduto durante l’autunno e l’inverno del 2020.

 

Ora mi trovo nel mio appartamento a Toronto, dove ho servito il Temple Sinai per gli ultimi 28.5 anni, con lo stesso volume contenente gli stessi commenti scritti centinaia di anni fa. Ai tempi nessuno poteva immaginare che vi sarebbe stata una pandemia globale, né si potevano immaginare gli strumenti digitali che ci collegano nonostante la pandemia. Sì, il mondo è cambiato; e sono cambiato anch’io.

Nonostante non mi ricordi quale commento specifico della Torah mi ispirasse 33 anni fa, quest’anno mi trovo particolarmente attratto dalle parole di K’li Yakar, il commento di Rabbi Shlomo Ephraim ben Aaron Luntschitz (1550–1619), che fu il rabbino di Praga dal 1604 al 1619. Nonostante abbia reverenza per R. Luntschitz  in quanto insegnante, nel corso degli anni lo sento più come un amico. Quando ho bisogno di parole guida, le posso trovare nei suoi scritti. I suoi commenti sulla parashah  di questa settimana si concentrano sull’umiltà rapportata all’apprendimento.

Alla fine della porzione di settimana scorsa, Giuseppe chiede al portatore della coppa del faraone di intercedere per lui con il sovrano e salvarlo. I nostri saggi vedono Giuseppe avere fede in Dio in questo senso. Avere tale fede non è facile, richiede che il Santissimo si interessi alle nostre vite. Naturalmente molti di noi hanno dubbi in merito. Nel  K’li Yakar, R. Luntschitz propone che il Santissimo dovrebbe essere il nostro modello. Proprio come Dio si interessa a noi, dovremmo interessarci di tutti, ascoltarli e rispettarli, indipendentemente dal loro “livello” di apprendimento, istruzione o esperienza.

Come è scritto nel commento alla prima riga della porzione:

“Fa parte del mondo che quando una persona ha raggiunto un livello superiore per ciò che riguarda una caratteristica o forza personale, [essi cessino] di curarsi dell’individuo ad un livello inferiore e di nominarlo.”

Molti di noi tendono verso una gerarchia.  Comprendiamo il nostro ruolo in vita paragonandoci a coloro che vediamo più in alto o più in basso di noi. Il riconoscere questa inclinazione crea l’opportunità di superarla.

Un altro alleato nella crescita personale è la longevità. Da quando incontrai questo testo più di trent’anni fa, ed avendolo studiato diverse volte da allora, il suo messaggio riecheggia in me, più forte di sempre. Nel corso degli anni, questo testo divenne la porzione di bar mitzvah di mio figlio.

Cosa ho imparato da questo viaggio? Ho imparato che devo sentire più reazioni possibili a queste antiche parole. Devo sapere che messaggio rappresentano sia per insegnanti che per studenti, per professori e neofiti, per studenti biblici e coloro che ancora non sanno leggere la lingua nativa della Torah.

Ho imparato che ognuno di noi possiede le parole della Torah; che possediamo la Torah quando ci rendiamo conto che non è esclusivamente nostra e che le sue molteplici interpretazioni non sono nostre da valutare.

Questa settimana discutete le parole di Mikeitz con qualcuno che crede o vive diversamente da voi. L’esperienza arricchirà entrambi.

 RABBI MICHAEL DOLGIN

Parasha – 17 Dicembre – Vayeshev - Genesi 37:1−40:23

Blog della URJ di questa settimana:

La storia di Giuseppe è la storia più lunga nella Torah e una delle più famose in tutta la Bibbia ebraica. Questo testo ha ispirato molti commenti tradizionali e moderni e nuove interpretazioni nel corso degli anni. Mentre queste presentazioni offrono la storia principale di Giuseppe e dei suoi fratelli, raramente affrontano la sua oscura realtà: E’ un monito al non ignorare problemi in famiglia ed i suoi risultati disastrosi.

Si parla molto della giacca colorata di Giuseppe, è un dono unico all’undicesimo di dodici figli e un gesto che sa di favoritismo. Il favoritismo è stato un fattore in quasi ogni generazione nel libro della Genesi: Caino e Abele,  Ismale ed Isacco, Esaù e Giacobbe, Lea e Rachele. Giacobbe subì il dolore di un comportamento irresponsabile, eppure, come vediamo in Parashat Vayeishev,  egli ripete lo stesso errore di cui fu vittima.

Sì, Giuseppe è il protagonista della storia, ma questa storia si basa sui ritmi e le realtà della vita di Giacobbe. Il suo nome, Ya’akov, significa “colui che segue la via storta.” Raramente Giacobbe affronta i problemi direttamente; la sua natura passiva fu stabilita dinanzi a suo padre non vedente, nei panni di suo fratello, seguendo gli ordini di sua madre. Nel come si rapporta a suo figlio, si vede che certi schemi comportamentali sono difficili da abbandonare.

All’inizio di Vayeishev, leggiamo dei famosi sogni di Giuseppe e la potente animosità nei suoi confronti da parte dei suoi fratelli, un animosità che sarebbe stata prevalente in qualsiasi famiglia in quelle circostanze. Come rispose Giacobbe? “I suoi fratelli perciò erano invidiosi di lui, ma suo padre tenne in mente la cosa.” (Genesi 37:11).  La sua reazione fu di tenere a mente l’evento o forse di evitare di affrontare la verità, che lasciò crescere. La verità non cambia quando ci nascondiamo nell’ombra; rimane. Non possiamo sperare che scompaia o tenere coloro che amiamo lontani da dure realtà.

In una famiglia, o in un altro sistema intimo, è troppo facile permettere che certe realtà crescano. Spesso scegliamo di non affrontare argomenti difficili. Ciò nonostante, mentre potrebbe sembrare rischioso affrontare difficoltà ed animosità di lunga durata, l’alternativa può essere molto peggiore. Considerate un dettaglio, spesso ignorato nella storia di Giuseppe: Mentre i suoi fratelli stavano considerando di ucciderlo con le loro mani, non erano disposti o capaci di fare ciò. Invece, “lo afferrarono e lo gettarono nella cisterna: era una cisterna vuota, senz'acqua. Poi sedettero per prendere cibo. “(Genesi 37:24-25)

Rabbi Ovadia Seforno indica che: “Ai loro occhi, non videro questa situazione come un ostacolo o barriera per sedersi a mangiare insieme”. L’odio che avevano per il loro fratello aveva forgiato il loro carattere cosi profondamente che non vedevano come crudele il fatto di mangiare mentre il loro fratello era stato lasciato morire di fame.

Secondo Seforno, si convinsero che Giuseppe era un rodef, un criminale, e la legge ebraica permette la protezione della propria vita come forma di autodifesa. Detto questo, quando qualcuno cerca di ucciderci o di farci del male, siamo legittimati a reagire. I fratelli di Giuseppe sembrano aver sfruttato questo concetto, per loro Giuseppe rappresentava una minaccia mortale, quando in realtà non era altro che fastidioso, il prodotto di un comportamento poco salutare da parte di un genitore.

Il commentatore Malbim lo spiega chiaramente: I fratelli si consideravano tzaddikim; tutto ciò che fecero era giusto e retto semplicemente perché furono loro a farlo. Quando Giacobbe fu incurante, egoista e sconsiderato nel suo agire da genitore, creò arroganza e odio nei suoi figli. Nel commento di Malbim, vediamo anche la soluzione a questo problema: l’umiltà. Se vogliamo vivere in una società ed avere una famiglia salutare, dobbiamo sfidarci a crescere piuttosto che giudicare gli altri. Dobbiamo vedere la bellezza creata in ogni essere umano, inclusi coloro che ci rendono la vita difficile, ed abbracciare la crescita di cui abbiamo bisogno.

Che gli elementi dolorosi della storia di Giuseppe ci ispirino a vedere le nostre vite e quelle degli altri diversamente.

RABBI MICHAEL DOLGIN

Parasha December 10 – Vayishlach - Genesis 32:4−36:43

Blog della URJ di questa settimana:

“Tu dunque, Giacobbe, mio servitore, non temere", dice il SIGNORE;
"non ti sgomentare, Israele; poiché, ecco, io ti salverò dal lontano paese,
salverò la tua discendenza dalla terra di schiavitù; Giacobbe ritornerà, potrà riposarsi, sarà tranquillo, e nessuno più lo spaventerà.”
(Geremia 30:10).

I fratelli gemelli Giacobbe ed Esaù vivono una vita di rivalità, di intrighi e di inganni. Giacobbe mente a suo padre Isacco mentre questi era morente, ruba la benedizione di suo fratello e poi fugge nella natura selvaggia. Passano gli anni e viene avvisato che suo fratello è vicino. Giacobbe ha paura. Cerca di placare Esaù facendogli dei regali. Poi, i messaggeri tornarono da Giacobbe, dicendo: «Siamo stati da tuo fratello Esaù; ora egli stesso sta venendoti incontro e ha con sé quattrocento uomini»." (Genesi 32:7).  Giacobbe comprese che suo fratello si stava dirigendo verso di lui con un piccolo esercito. E poi: Giacobbe si spaventò molto (vayera) , e si sentì angosciato(vayetzer) , allora divise in due accampamenti la gente che era con lui, il gregge, gli armenti e i cammelli.” (Genesi 32:7-8).

Giacobbe è un uomo timorato. Due volte nel verso precedente viene usata la parola paura in ebraico -- vayera e poi vayetzer. La prima parola usata significa anche “soggezione”. Nell’osservare il mistero dei cieli, il confine tra soggezione e paura è assai labile. Siamo in soggezione dinanzi al vasto sconosciuto che è Dio, e siamo consci di quanto siamo piccoli. Abbiamo paura della nostra vulnerabilità e allo stesso tempo siamo in soggezione dinanzi alla grandezza e alle benedizioni che ci circondano.

La seconda parola usata “vayetzer” nasce dalla radice che significa “stretto”. Quel tipo di paura che attanaglia la nostra essenza. Ci sentiamo stretti, terrorizzati. Alcuni rabbini insegnano che le due parole “vayera” e “vayetzer” indicano i due tipi di paura che albergano nel cuore di Giacobbe; ha paura di essere ucciso dal fratello e ha anche paura di dover uccidere suo fratello quando questi lo attaccherà.

Ma vi è un altro insegnamento proveniente dalla letteratura rabbinica: Giacobbe ha paura perché crede di “non essere degno di una salvezza miracolosa”.

 

Come Giacobbe, le due paure albergano anche nei nostri cuori. A volte sentiamo il paradosso di vayera: soggezione e paura. Il mistero ci ispira, siamo in soggezione davanti alla bellezza che ci circonda. guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissate.” (Salmi 8:4). Ma spesso la vastità incute timore in noi, “che cosa è l'uomo perché te ne ricordi
e il figlio dell'uomo perché te ne curi 
(Salmi 8:5)Ci sentiamo piccoli, incapaci, giudicati. Abbiamo cosi tanta paura verso le ambiguità della vita. Abbiamo paura perché non abbiamo controllo sulle forze del mondo sia piccole che grandi. 

A volte invece proviamo vayetzer. Ci sentiamo costretti. Viviamo una vita con una prospettiva di scarsità.  Ci sarà abbastanza amore, benedizioni, amicizia, successo?  Saremo mai abbastanza? Degni di essere redenti da ciò che ci schiaccia , che non ci permette di vivere la nostra vita migliore. Chi tra di noi non ha paura di essere giudicato? Di essere piccolo? Attraversiamo il mondo stretti, ansiosi e tesi. 

Ma abbiamo una scelta. Nel mondo spirituale, l’opposto della paura è l’amore. Invece di temere la scarsità, possiamo sperare che ci sia abbondanza. La nostra liturgia ci insegna che l’universo contiene amore, speranza e bellezza-ahava rabah,. Quando viviamo con una prospettiva di abbondanza, abbiamo abbastanza, viviamo con gratitudine per le molteplici benedizioni di cui godiamo in vita. Siamo degni. 

Eppure facciamo fatica. Non è facile silenziare le nostre menti e aprire i nostri cuori. Vivere non è facile. Spesso la vita è una lotta contro forze invisibili, contro persone, circostanze, demoni interni e angeli. Nell’oscurità lottiamo tra l’essere degni e l’accettazione, tra amore e paura.

E’ notte presso il fiume Jabbok. L’oscurità è ovunque. Chissà se vi è una lieve brezza, una minima presenza divina prima della battaglia. Forse le stelle illuminano il cielo nero, forse no. Forse la luce della luna illumina l’acqua del fiume, forse no. Tutto tace e Giacobbe ha paura. Dal nulla un vortice lo sconvolge. Chi sei? Chi sei che ci impaurisci e tieni in mano il nostro cuore? Qual è il nome di colui che ci fa così male? Poi di colpo una luce si palesa all’orizzonte. Giacobbe chiede una benedizione che possa liberarlo dalla paura:  "Lasciami andare perché è spuntata l’aurora Giacobbe rispose: «Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!» E lo straniero, forse un angelo gli rispose :  "Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!" (Genesi 32:27-29).

E da quel momento il nostro popolo ha un nome. Non siamo i figli di Abramo, ne siamo i figli di Isacco. Non siamo nemmeno i figli di Giacobbe. Siamo Israele, un popolo che lotta per liberarsi dalle proprie paure, desiderando di vivere in soggezione, liberi in amore e benedizione. 

Come scrissi una volta : 

Vi è timore nel cuore umano. 
Vi è anche speranza.
Le due forze lottano costantemente, come Giacobbe e Dio. 
A volte vince uno, a volte vince l’altro. 
A volte la lotta è silenziosa, a volte è rumorosa. 
Ma è costante –paura, speranza, paura, speranza.
Lampi di luce e ombre che roteano in noi perennemente. 
E’ molto più facile quando c’è amore. 
Quando l’amore domina la tua vita 
diventa il contesto di tutto. 
L’amore è la misura di una vita vissuta appieno,
è il faro della possibilità.
Quando ami, la paura è meno imponente,
spera con più forza.

RABBI KARYN D. KEDAR

Parasha – Vayetze - Genesi 28:10−32:3 - 3 Dicembre

Blog della URJ di questa settimana:

Forse più di tutti i patriarchi, Giacobbe è quello che soffre maggiormente con l’invisibile. Sogna, concepisce e lotta contro l’incognito. Vede, guarda la sua nemesi negli occhi della sua nemesi, del suo nemico e vede il volto di Dio. Il suo viaggio è un vagare spirituale verso la scoperta e l’autocoscienza. Vede il futuro e in definitiva è una forza unificante che attualizza il futuro.

Rabbi Jonathon Sacks, z'l, si pone una domanda importante:

Cos’è che rese Giacobbe - non Abramo o Isacco o Mosè - il vero padre del popolo ebraico? Veniamo chiamati “la congregazione di Giacobbe”, “i figli d’Israele”. Giacobbe/Israele è l’uomo il cui nome portiamo. Eppure Giacobbe non iniziò il viaggio ebraico, fu Abramo. Giacobbe non dovette affrontare prove come Isacco. Non condusse il popolo ebraico fuori dall’Egitto o lo portò alla Torah. Senza dubbio, i figli di Giacobbe rimasero parte della fede ebraica, a differenza di Abramo o Isacco. Ma ciò porta la domanda originaria indietro di un punto. Perché Giacobbe riuscì ad avere successo mentre Abramo e Isacco fallirono? “La Luce in Tempi Oscuri” (Vayetse 5781)

La tradizione rabbinica vede Giacobbe come un visionario che può anticipare il futuro e che comprende profondamente l’animo umano.

Prendete ad esempio il sogno presente nella porzione di Torah di questa settimana:

“Fece un sogno: una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo; ed ecco gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa... Allora Giacobbe si svegliò dal sonno e disse: «Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo». Ebbe timore e disse: «Quanto è terribile questo luogo! Questa è proprio la casa di Dio, questa è la porta del cielo»." (Genesi 28:12-17).

Midrash Rabah ci insegna che la scala di Giacobbe è in realtà una vision del Monte Sinai. I rabbini contano il valore numerico delle lettere che formano la parola “scala”, in ebraico sulam, e la parola “Sinai”. Entrambe hanno un prodotto di 130. In questa interpretazione del sogno, Giacobbe è un visionario; anticipa il momento in cui il popolo vagante diventerà una nazione attraverso la condivisione di storie, ricordi, ed un obbligo divino di seguire una serie di leggi, regole, e un sistema etico profondamente significativo. Vede la montagna che collegherà il cielo alla terra.

Secondo Rabbi Solomon ibn Gabirol, poeta e commentatore rabbinico dell’undicesimo secolo, la scala e gli angeli nel sogno di Giacobbe riflettono la natura spirituale della condizione umana. Secondo Gabirol, Giacobbe credeva che la nostra anima desidera essere vicina a Dio. L’ascesa spiritual è possibile e gli angeli nel sogno rappresentano la saggezza che acquisiamo nel praticare un vivere spirituale.

Ibn Ezra, un altro commentatore biblico sefardita dell’undicesimo secolo, rigetta la spiegazione di Gabirol insieme alle altre interpretazioni del sogno di Giacobbe quando dice:

“Apparentemente questi commentatori non hanno studiato le profezie di Zaccaria, Amos e Geremia. Per interpretare il sogno di Giacobbe bisogna vederlo come una parabola. Ci insegna che nulla è occultato da Dio e che ciò che succede in terra è contingentato dal cielo”.

Queste tre spiegazioni iniziano a formare una risposta alla domanda di These Rabbi Sachs. Giacobbe è un profeta che vede il futuro e prevede il Sinai. E’ un insegnante che ci mostra i desideri spirituali del cuore umano. E’ un teologo che ci spiega la natura del rapporto fra Dio ed il popolo ebraico.

Indipendentemente dall’insegnamento a cui ci possiamo rapportare, Giacobbe viene descritto come un leader visionario, uno che ispira il nostro popolo e che ci unisce. Il suo nome diventa omonimo con il nostro popolo, diventiamo i figli d’Israele.

Il sogno di Giacobbe e Giacobbe stesso ci ispirano. Veniamo ispirati dalle sue imperfezioni, perché ci mostrano che possiamo vacillare ma trovare comunque uno scopo. Veniamo ispirati dal suo viaggio. Veniamo ispirati dalla sua lotta. E veniamo ispirati dalla sua perseveranza.

Giacobbe è un leader ispiratore.

Una leadership ispiratrice è attraente al nucleo di chi siamo, tocca profondamente ciò che è essenziale in vita. Risveglia il desiderio di un significato e di uno scopo che alberga nel nostro cuore, risvegliandoci dal letto della compiacenza e sblocca la meraviglia e l’entusiasmo che vivono silenziosamente nel nostro cuore. Ci motiva a vivere e ad agire con uno scopo, come se le nostre azioni significassero qualcosa.

Siamo testimoni di ciò che è possibile, nonostante altri lo considerino meramente probabile. Ci ricordiamo di non essere soli, nonostante il nostro viaggio in vita paia solitario. Ci ricordiamo che siamo stati chiamati alla vita e che siamo chiamati a servire il grande Mistero, e perciò dobbiamo al mondo, o all’umanità o al grande Mistero una parte di chi siamo. Ci ricordiamo che la nostra vita conta.

E lottiamo contro forze invisibili contro noi stessi:

Riprese: «Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!»… Allora Giacobbe chiamò quel luogo Penuel «Perché - disse - ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva.» (Genesi 32:29-31).

Giacobbe prevalse.

Che possiamo prevalere.

RABBI KARYN D. KEDAR

Parasha – Toledot - Genesi 25:19−28:9 - 26 Novembre (Copy)

Blog della URJ di questa settimana:

Nella parasha di questa settimana, viene detto che Isacco ha “occhi deboli”, questa frase viene considerate come una metafora per la sua incapacità di vedere cosa necessitassero da lui i suoi due figli gemelli Giacobbe e Esaù (Gen. 27:1). Perché fu così impreparato? Nel monologo midrashico, Isacco ci dà un’idea di tutto questo quando riflette sul suo rapporto con il padre. Immaginatevi se questi fossero i pensieri di Isacco:

"Ero così eccitato quando mio padre mi disse che saremmo andati a scalare una montagna!”

"Mio padre Abramo era un macher (una persona molto importante), e parlava incessantemente con Adonai. Era pronto ad essere il padre di molti popoli, i cui nomi sarebbero stati una benedizione.”

"A me tutto ciò importava poco. In quanto suo figlio adolescente, probabilmente il suo prediletto, quello che diceva di amare, volevo solo passare del tempo con lui.”

"Si penserebbe che un tipo che passava le proprie giornate a creare legami sacri con la gente farebbe lo stesso con la sua famiglia. Ma non eravamo particolarmente vicini, forse perché mi ebbe così tardi nella sua vita.”

"Diventando frustrante la mancata attenzione da parte di papà, mia mamma Sarah mi assicurò che lui mi amava, ma che era semplicemente votato al successo. Mi spiegò che molti uomini s’identificavano e trovavano valore nel loro lavoro. Ad essere sincero, spesso sentivo che papà lavorava per evitare di passare del tempo con me, perché non sapeva come comportarsi con me o come mostrare emozioni o parlare di cose personali.”

"Quando papà finalmente si concentrò sul nostro viaggio nella natura selvaggia, si svegliò presto, mise la sella all’asino e preparò legna per un fuoco ed altri utensili. Ciò non era da lui. Avevamo servi per queste cose. C’era qualcosa di strano se un uomo ricco si occupasse di cose di questo tipo. (Midrash Tanchuma, Vayeira 22:4). Speravo che significasse che mio padre volesse passare del tempo con me.”

"Uscimmo presto. Quando non vidi mia madre sull’uscio a salutarci, sapevo che c’era qualcosa di strano. Anche oggi, non sono sicuro se mamma sapesse quale fosse il piano di papà, o se lo scoprì più tardi.”

"La mamma morì prima che tornassimo. Forse è morta di crepacuore dopo aver sentito ciò che papà stava per farmi? O forse perché dopo anni di matrimonio, papà prese una decisione cosi importante senza consultarla? Se la mamma non fosse morta il loro matrimonio sarebbe durato? Dio, come mi manca… “

"Papà mi disse che avremmo offerto un sacrificio a Adonai. Non mi aveva mai fatto partecipare prima. Perché non ero abbastanza capace per aiutare? Ora non riuscivo a contenere la mia eccitazione. Il mio primo sacrificio, un momento Shehecheyanu!

"Ho tenuto un diario del viaggio. Scrissi: V’yeilchu sh’neihem yachdav. E i due di loro-beh noi-proseguirono insieme “ (Gen. 22:6). Cercai di parlare con papà.

" 'Dad?' gli chiesi 'Sì, figlio mio’ mi rispose con distacco. Gli chiesi, 'Abbiamo la legna, ed il coltello, ma dov’è l’agnello per l’olocausto? Inizialmente rimase silente, con uno sguardo distante sul volto. Poi mi rispose sottovoce, 'Dio si prenderà cura delle pecore per il sacrificio, figlio mio (Gen 22:7-8).' Tutt’oggi quelle parole mi fanno rabbrividire; stava dicendo che io dovevo essere il sacrificio per il suo lavoro sacro (Midrash Tanchuma, Gen. 22:3)?

"Quelle furono le uniche parole che ci scambiammo. Scrissi di nuovo nel mio diario, “I due proseguirono insieme” (Gen. 22:8).

"Mia moglie Rebecca rise a quanto ironica fosse la situazione. 'Camminaste assieme? Fai sembrare che le parole non erano necessarie perché voi due eravate vicini. Ma mi hai detto diverse volte, quando Abramo era lì con te, la sua mente era altrove. Anche camminando con lui, ti sentivi solo.'

"Come posso spiegare cosa successe su quel monte? Era stanco dalla scalata. Mi avvolse in una coperta e mi mise per terra. Dormii tranquillo.”

"Ancora una volta, le cose non stavano andando come speravo. Papà costruì l’altare da solo. Non mi chiese aiuto. Mi sentii legato, come se la sua incapacità di parlarmi mi tenesse legato. I suoi silenzi interminabili-il fatto che non mi vedesse per davvero-erano taglienti come un coltello.

"Forse papà non voleva farmi del male. Forse stava solo facendo ciò che pensava che un padre dovesse fare : Essere forte. Essere un capofamiglia. Forse tutta quella pressione era troppa per lui, e lo faceva sembrare distante. Mi ricordo solo che tutto ciò mi faceva male.”

"Speravo che questo viaggio avrebbe cambiato tutto. Che mi avrebbe portato sul quel monte per conoscere Adonai in modo da potergli offrire il sacrificio insieme. Invece ero io il sacrificio. Mio padre sacrificò il nostro tempo assieme. Quando da solo tagliò la gola all’ariete, era come se avesse tagliato i fili sottili del nostro rapporto.

"Abramo chiamò quel luogo Adonai-yireh, ovvero 'sul monte di Adonai, vi è una visione' (Gen. 22:14). Quel giorno la mia visione fu chiarissima: non potevo perdonare le sue disattenzioni. Il nostro rapporto doveva finire. Dovevo concluderlo io.

"Quel giorno, Abramo partì con i suoi servi verso Beersheba. Fu lodato globalmente per la sua fede. Il suo nome divenne una benedizione. Grazie a suo nipote Giacobbe, i discendenti di Abramo furono numerosi come le stelle nel cielo e la sabbia sulla spiaggia.

"Io me ne andai da solo.”

"Non parlai mai più con papà. L’ultima volta che lo vidi fu al suo funerale” (Gen. 25:9).

"A volte mi sento così arrabbiato e triste da non vederci per le forti emozioni. Mi ha lasciato così impreparato nel come prendermi cura dei miei figli. Non ebbi mai un genitore come modello di vita.

"Perché il rapporto fra padri e figli – che dovrebbero essere stretti - spesso sono cosi dolorosi e distanti?

"Forse abbiamo appreso ciò da papà Abramo.”

Rabbi Paul Kipnes

Parasha –Chayei Sarah - Genesi 23:1−25:18 - 19 Novembre 2022 (Copy)

Blog della URJ di questa settimana:

Cos'è qualcosa che molte persone vogliono diventare ma nessuno vuole essere? Questo paradosso non è un indovinello, ma semplicemente un fatto della vita. Nella nostra cultura orientata verso la gioventù, quasi tutti vogliono invecchiare ma nessuno vuole diventare vecchio. Considerate tutte le formule ed esercizi per aiutare nella ricerca della fonte della giovinezza tramite cui poter rallentare o addirittura fermare la marcia inesorabile del tempo.

La tensione tra il voler diventare grandi e voler rimanere giovane è ancora più urgente ora dato l’invecchiamento della popolazione globale, diversa più che mai a livello storico. Ciò è evidenziato dal numero di persone che vive ben oltre l’età pensionabile. La categoria di persone tra i 65 ed i 74 anni è circa otto volte quella del 1900; il numero di persone tra i 75 e gli 84 anni è 17 volte tanto; e coloro che hanno dagli 85 anni in su sono aumentati di 40 volte. Proiezioni future ci dicono che entro il 2030 ci saranno più di 70 milioni di persone sopra i 65 anni, e la popolazione dagli 85 anni in su, il gruppo che avrà maggior bisogno di cura, aumenterà drasticamente.

La vita di oggi non si conforma ad aspettative pregresse. Il matrimonio, la scuola, fare carriera, avere figli, sono sempre più fluidi. Molte persone non si comportano o non sembrano avere la loro età anagrafica.

Chayei Sarah fu scritto durante un periodo in cui l’invecchiare era più un’eccezione che una regola. Si tratta di un racconto che chiede al lettore di prendersi del tempo per riflettere sul concetto dell’invecchiamento e di sperare di fare ciò lentamente e con grazia invece che in modo severo. Il testo ricorda al lettore che Sarah aveva 127 anni quando morì (Genesi 23:1)  mentre Abramo morì a 175 anni (Genesi 25:7).  Sia Sarah che Abramo raggiunsero i loro obiettivi personali più significativi  in tarda età, ben oltre ciò che sarebbe considerato fattibile oggi. Abramo sull’ordine di Dio si mise in viaggio da Haran (Iraq) verso la “terra che ti mostrerò” a 75 anni (Genesi 12:1, 4). Quando Abramo raggiunse i 90 anni, Dio si rivelò a lui e gli promise di rendere numerosi i suoi discendenti. (Genesi 17:4-6). Ad Abramo venne ordinato di circoncidersi a 99 anni (Genesi 17:24). Nonostante Sarah (90 anni) e Abramo (100 anni), fossero ben oltre l’età biologica per avere figli, diedero alla luce Isacco (Genesi 21:2-3). Perciò l’età non rappresentava un problema per Sarah e Abramo. Si lanciarono in nuovi viaggi quando forse ci si sarebbe aspettato che sarebbero stati a casa a fare la calza.

Coloro che pensano che invecchiare è solo una questione di mente sulla materia ignorano cose come geni, nutrizione, esercizio e forse anche il pizzico di fortuna. Ciò nonostante anche come ci si rapporta all’invecchiamento ha il suo peso.

L’atteggiamento è parecchio importante. Alcuni anni fa, andai a trovare una donna di 99 anni. Prima di congedarci le dissi: “Spero di poter tornare per festeggiare il tuo 100esimo compleanno.” “Perché no?” mi rispose lei, “Mi sembri in perfetta salute.”

Prima di oggi, invecchiare era qualcosa di anomalo.

Secondo Il Libro Dei Proverbi : “I capelli grigi sono una corona di gloria” (Proverbi 16:31).  La tradizione rabbinica ci insegna: “ben arba-im labinah, ben chamishim l‘eitzah ... ben sh’monim lig’vurah — 41 anni sono fatti per il discernimento, cinquanta per dare consiglio…ottanta per dare forza” (Pirkei Avot 5.21). Queste non sono frasi isolate sull’invecchiamento, vi sono massime simili in altri testi tradizionali. L’esempio della longevità di Sarah ed Abramo e di ciò che hanno realizzato in età avanzata ci danno nuovi modi di pensare su come dare significato all’anzianità, realizzando cosi la preghiera del Salmista : “Insegnaci a contare bene i nostri giorni per acquisire un cuore saggio” (Salmi 90:12).

Rabbi Stephen S. Pearce, Ph.D.

Parasha – Vayeira, Genesi 18:1–22:24  (SABATO, 12 NOVEMBRE)

 Riassunto:

 

-         Abramo dà il benvenuto a tre visitatori che annunciano che Sarah avrà un figlio.

-         Abramo litiga con Dio per ciò che riguarda la distruzione di Sodoma e Gomorra.

-         La casa di Lot viene invasa dal popolo di Sodoma. Lot e le sue figlie riescono a fuggire mentre le città vengono distrutte. La moglie di Lot viene trasformata in una statua di sale.

-         Lot ingravida le sue figlie che danno alla luce figli che diventeranno i fondatori di Moab e Ammon.

-         Abimelech, re di Gerar, prende Sarah in moglie dopo che Abramo dice di essere suo fratello.

-         Isacco nasce, viene circonciso e svezzato. Hagar e suo figlio, Ismaele, vengono cacciati ed un angelo salva loro la vita.

-         Dio mette alla prova Abramo, ordinandogli di sacrificare suo figlio Isacco presso il monte Moriah.

 

Lezione di: Rabbi Karyn D. Kedar

 

Mi sedetti vicino al mare, spostandomi da luce ad ombra, ascoltando il suono del leggero vento. Nel cielo scorsi un gabbiano, una farfalla color cannella, e un aereo. Il mondo era in costante movimento eppure provavo un senso di fermezza. E poi, nel cuore del giorno, sul ramo più alto dell’albero più alto notai un brillio. Fu una grande distrazione. Mi domandai cosa fosse. Mi aspettavo che scomparisse. Nel guardare questa luce, sentii una presenza, una calma sopra di me. Shalom aleichem, benvenuto angelo della pace.

Gli angeli del Tanach sono metafore per i nostri desideri più alti. Raffaele, Dio è il mio guaritore; Michele, chi è come te o Dio; Gabriele, Dio è la mia forza; Uziele, Dio è la fonte del mio potere; Oriele, Dio è la mia luce. Quanto desideriamo avere un senso di forza, salute, luce e potere che ci possano avvolgere con un senso di protezione. A volte gli angeli di Tanach sono messaggeri. Spesso questi messaggeri si presentano sotto forma di persone, stranieri che paiono comunicare una verità divina.

Questa porzione di Torah abbonda di messaggi eterni. Inizia con : Poi il Signore apparve ad Abramo alle Querce di Mamre, mentre egli sedeva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno. (18:1). Secondo i rabbini del Talmud, (bava metzia 86b),  tutto ciò avviene durante il terzo giorno dalla sua circoncisione e Abramo è seduto fuori dolorante al caldo. Egli è alla ricerca di conforto e guarigione. Tutto d’un tratto, alle querce di Mamre, compare Raffaele, l’angelo della guarigione. Abramo viene liberato dal suo dolore e a noi, in quanto generazione futura, viene insegnato che il visitare i malati è un comandamento importante. Raffaele, Dio è il potere della guarigione.

Poi, in quello stesso verso, tre uomini si avvicinano alla tenda. “Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide, corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò fino in terra.” (18:1-2).  Ad Abramo e Sarah questi tre sembrano essere tre stranieri alla ricerca di riposo da un lungo viaggio, perciò viene esteso loro un rifugio dalla brutale realtà del deserto. Gli stranieri si siedono all’ombra di alcuni alberi e viene offerta loro acqua, cibo e sicurezza.

Abramo e Sarah non sanno che gli stranieri sono gli angeli della benedizione e del destino che sono venuti per consegnare un messaggio divino: Abramo e Sarah avranno un figlio. La promessa di Dio cosi si manifesterà tramite Isacco:”Io ti colmerò di benedizioni e moltiplicherò la tua discendenza come le stelle nel cielo e come la sabbia che è sul lido del mare.”(22:17). Il destino del popolo ebraico verrà cosi svelato e cosi inizierà anche la sua storia. Michele, chi è come te o Dio?

Salute, benedizione e ora giustizia. La Torah ora si concentra su Sodoma e Gomorra, due città sregolate, dove il male è la norma e la crudeltà è luogo comune. Dio dice ad Abramo che queste città devono essere distrutte. “I due angeli arrivarono a Sodoma sul far della sera, mentre Lot stava seduto alla porta di Sodoma. Non appena li ebbe visti. Lot si alzò andò loro incontro e si prostrò con la faccia a terra, e disse: “Miei signori, venite in casa del vostro servo: vi passerete la notte, vi laverete i piedi, e poi, domattina, per tempo, ve ne andrete per la vostra strada.” (19:1-2).

E’ sera. Gli angeli si trovano alle porte di Sodoma. Lot, come Abramo e Sarah, vedo loro come stranieri reduci da un lungo viaggio, e perciò offre loro di lavarsi i piedi. Ma è la città che ha bisogno di essere ripulita. La metafora è chiara: Dio non permetterà che il male fiorisca. Gabriele, Dio è la mia forza.

Ed ora, l’angelo di Hagar. Hagar, come richiesto da Sarah, fa da madre surrogata, difatti il primo figlio di Abramo è di Hagar. Ma adesso c’è Isacco. Sarah ordina che Hagar ed Ismaele vengano banditi alla natura selvaggia. Hagar è impaurita e urla al cielo : “Che io non veda morire mio figlio” Dio udi’ la voce del ragazzo e l’angelo di Dio chiamò Hagar dal cielo e le disse “Che hai Hagar? Non temere perché Dio ha udito la voce del ragazzo là dov’è. Alzati, prendi il ragazzo e tienilo per mano, perché io farò di lui una grande nazione” (21:17). Un angelo di pietà e compassione appare sotto la forma di una voce dal cielo. Madre e figlio trovano conforto. Ismaele sarà il padre di una grande nazione.. Uziel, Dio è la fonte del mio potere.

Un po’ di tempo dopo : “Dio disse ad Abramo : “Prendi ora tuo figlio, il tuo unico, colui che ami e và nel paese di Moria, e offrilo là in olocausto sopra una dei monti che ti dirò” (22:2). Abramo viene messo alla prova. Deve prendere suo figlio Isacco e sacrificarlo a Dio. Obbedendo, Abramo cammina silenziosamente per tre giorni con suo figlio Isacco, lo porta ad un altare e alzando un coltello si prepara ad ucciderlo ma di colpo un angelo del Signore lo richiama dal cielo : “Abramo! Abramo!” Egli rispose “Eccomi.”E l’angelo : “Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli del male. Ora so che tu temi Dio, poiché non mi hai rifiutato tuo figlio, l’unico tuo.” (22:11-12.)  Diventeremo una società diversa, onorando i nostri figli e istruendoli, non sacrificandoli come si faceva allora. Oriele, Dio è la mia luce, non avrò paura.

La nostra storia si è districata tra angeli, metafore di guarigione, benedizione, promesse, giustizia, pietà, compassione ed illuminazione. Tornai a quell’albero il giorno seguente e non rimasi stupito nel vedere che la luce era scomparsa. Ma chiudendo gli occhi, gli uccelli tornarono, cosi come il vento ed il suono dell’acqua, ed il sentore di una presenza e di pace.

 

(Con permesso- https://reformjudaism.org/learning/torah-study/torah-commentary/  Tradotto dall’inglese all’italiano. L’autore non è responsabile per la traduzione.)