18 Feb:   Parasha Mishpatim - Esodo 21:1−24:18

Blog della URJ di questa settimana: D'VAR TORAH BY: RABBI SARAH BASSIN

La religione è la fonte della maggior parte di atrocità che avvengono nel mondo. La religione ci rende persone migliori.

Quale delle due frasi è corretta?  Si può leggere qualsiasi testo sacro di qualsiasi fede e trovare passaggi che condonano o anche incoraggiano atti violenti. Ma si possono anche trovare passaggi che ci costringono a sforzarci ad aiutare gli altri e a vivere vite più compassionevoli. Apologisti religiosi fanno finta che i testi di terrore non esistono. Mentre nuovi atei fanno finta che i testi compassionevoli non esistono.

Diventa sempre più difficile ignorare un tipo di testo o un altro quando sono uno affianco all’altro. Troviamo esempi sia di testi di terrore che di testi compassionevoli nella porzione di Torah di questa settimana, Mishpatim. Da un lato ci viene ordinato di non maltrattare o schernire lo straniero (Esodo 22:20). Dall’altro, ci viene detto che Dio caccerà man mano tutti gli abitanti della terra (Esodo 23:30).

Ama lo straniero. Uccidi le nazioni. Parashat Mishpatim ci ricorda che la nostra tradizione non è così pulita come vorremmo credere. Ma prima di scoraggiarci per il fatto che ciò rende la religione inutile in gran parte, forse vi è una verità più profonda all’interno di questa giustapposizione.

Quando ci viene detto di non fare del male allo straniero, stiamo parlando di una persona. Dobbiamo prenderci cura di quella persona. Siamo capaci di provare compassione per un singolo individuo. Dopo tutto, possiamo conoscere questa persona. Una persona ha un volto e una storia.  Può avere fatto degli sbagli durante il corso della sua vita, ma la sua anima è buona. Dopo tutto una singola persona è complicata.

Invece un gruppo di persone è più facile da catalogare. Quel gruppo di persone è violento. Quel gruppo di persone è pigro. Quel gruppo di persone è bravo in matematica.

Quando ci troviamo davanti ad un individuo possiamo analizzare le sue complessità. Quando ci troviamo davanti ad un gruppo di persone la nostra capacità di avere compassione si sovraccarica, e ci basiamo su quella parte del nostro cervello che semplifica e categorizza. Vediamo un gruppo ma non siamo capaci di vedere degli individui.

Una singola persona rappresenta una storia. Molteplici persone sono una statistica.

Parashat Mishpatim ci offre una scelta: vedremo altre persone come lo straniero che dobbiamo proteggere, o li raggrupperemo e li vedremo come un collettivo da cui ci dobbiamo separare per proteggere noi stessi?

Esistono entrambi gli impulsi. Entrambi hanno uno scopo. In una società aperta e pluralista, preferiamo la retorica dello straniero rispetto a quella di distruggere le altre nazioni, ignorando il nostro bisogno di sicurezza. Se non abbracciamo tendenze conservazioniste, rimaniamo vulnerabili ad un attacco. E’ una triste verità che il nostro popolo conosce bene.

Ma se la conservazione diventa la totalità della nostra identità, cosa stiamo conservando?

Al fianco di questi due comandamenti, di prenderci cura dello straniero e di distruggere altre nazioni, la nostra tradizione riconosce le sue contraddizioni.

Semplifica eccessivamente il concetto che la religione è solo compassione o che la religione è la causa di tanto male.

In molti casi non abbiamo bisogno della religione per dirci ciò che e bene e ciò che è male. Conosciamo abbastanza umanisti laici che non hanno bisogno di Dio per vivere una vita morale.

Io invece direi che la religione in generale ci offre un contesto in cui andare contro ai nostri impulsi. Ci dà l’opportunità di assicurarci che il nostro istinto non ci stia inducendo in errore in un mondo sempre più complesso.

L’ebraismo ci dà l’opportunità di paragonare noi stessi a millenni di tradizione. Spesso, ci impegniamo ad essere migliori dei nostri antenati. A volte facciamo fatica a tener loro testa.

La nostra Torah funge più da specchio che da manuale di istruzioni. Siamo costretti a guardarci in un contesto di una lunga conversazione ed a capire se la nostra voce verrà ascoltata, non solo oggi ma nelle generazioni che seguiranno.

Nel darci insegnamenti morali contradditori, Parashat Mishpatim ci costringe a guardarci allo specchio e a chiederci non solo come ci rapportiamo agli stranieri ma anche chi vogliamo essere. Vogliamo trattarli come lo straniero e accoglierli con compassione?  Oppure è più prudente vederli come nazioni pericolose? Posso apprendere qualcosa dai saggi che mi hanno preceduto oppure la loro prospettiva è troppo limitata per essermi d’aiuto?

Trovare le risposte non è facile perché le domande non sono facili. Ma piuttosto che congratularci con noi stessi per qualsiasi decisione istintiva avessimo preso, forse non sarebbe male guardarci allo specchio e instaurare un rapporto con la nostra tradizione, come un’opportunità per analizzare noi stessi. Nessuna religione è perfetta. Ma la religione può essere estremamente efficace quando abbiamo bisogno di ricordarci che nemmeno noi siamo perfetti.