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Pesach Blog 5781 / Aprile 2021

Pesach:  Matzot…Libertà…Un sacrificio presso l'antico tempio. Tutto ciò fà parte di questa antica festa che celebriamo questa settimana.

L'ebraismo che oggi conosciamo si è sviluppato nel corso di migliaia di anni. Durante questi millenni l’ebraismo è cresciuto e si è evoluto. Per mantenere il suo carattere vibrante, i nostri maestri e commentatori sono stati disposti ad includere una varietà di racconti all'interno della narrativa principale che conosciamo come l'ebraismo che oggi pratichiamo.

Un esempio di come l’ebraismo includa diverse origini storiche che formano un tutt'uno si può trovare nella varietà di nomi per il Chag, la festa a cui diamo il nome di Pesach.  Nella nostra tradizione quest'ultima possiede quattro nomi diversi:

1.      Il primo nome, e quello con cui siamo maggiormente familiari, è Chag HaPesach – la festa di Pesach.  Questo nome viene associate al racconto biblico della decima piaga, per la quale Dio passò oltre le case degli israeliti. Si riferisce anche all’offerta sacrificale portata all'antico tempio a Gerusalemme. Una parola, Pesach, si riferisce in realtà a due eventi diversi- a Dio che passa oltre le case degli israeliti e al sacrificio presso l’antico tempio- entrambi ebbero luogo a centinaia se non a migliaia d'anni di distanza fra di loro.

2.     Il secondo nome, che non dovrebbe sorprendere, è Chag HaMatzot – la festa del pane azzimo.  Questo nome deriva dalla storia presente nella Torah in cui gli ebrei lasciarono l'Egitto con tale fretta da non avere il tempo di far lievitare il pane. Questo nome rispecchia il ruolo centrale della Matzah durante il santo giorno di Pesach.

3.     Il terzo nome è Chag HaAviv –la festa della primavera.  Questo nome rispecchia il significato stagionale di Pesach, che è evidente nelle verdure e dell'uovo che troviamo sul piatto del Seder, rappresentativo della primavera come momento di rinascita.

4.     Infine, abbiamo il nome Z’man Cheiruteinu – la stagione della libertà.  Questo nome si riferisce alla liberazione dalla schiavitù che è al centro della storia di Pesach.

Ognuno di questi nomi compare nel nostro Seder di oggi. Nel corso delle generazioni, la nostra tradizione ha incluso diversi aspetti di ognuno di questi nomi nel giorno sacro che attualmente festeggiamo. Ed ognuno di questi nomi ci insegna qualcosa su come dovremmo vivere Pesach nelle nostre vite.

Il primo nome, Chag HaPesach – la festa di Pesach, in cui Dio passò oltre le case degli schiavi ebrei, conducendoli successivamente alla libertà, ci ricorda che questa storia riguarda il concetto del fare il primo passo, di essere disposti ad abbandonare le catene della schiavitù per dirigersi verso l’ignoto. Non è un passo facile da compiere. Richiede coraggio…il coraggio di lasciarsi indietro ciò che si conosce, il confortevole, e dirigersi verso un futuro tutto da scoprire. Gli ebrei che lasciarono l'Egitto si diressero verso il deserto del Sinai in un viaggio che durò 40 anni.  Non solo furono testimoni ai miracoli di Dio, ma soffrirono grandi pene. Festeggiamo il loro coraggio e prendiamoli come esempio, ricordandoci che dovremmo emulare il loro coraggio nel fare i primi passi verso il futuro.

 Il secondo nome, Chag HaMatzot – la festa del pane azzimo, richiama il comandamento di evitare qualsiasi tipo di Chametz durante questo giorno sacro. Il semplice atto di consumare Matzah viene considerato un comandamento spirituale. Dovremmo evitare qualsiasi tipo di cibo lievitato, ricordandoci che un ego spropositato e gonfiato può schiavizzare l'anima più di una prigione vera e propria. La natura piatta della Matzah che mangiamo per un’intera settimana ci ricorda che l'umiltà è il nostro obiettivo ultimo.

Il terzo nome, Chag HaAviv – la festa della primavera, ci insegna che noi ebrei siamo degli eterni ottimisti. La primavera, coi suoi fiori ed alberi che ci circondano insieme ai prati verdi e al calore del sole, ci ricorda che in seguito ad un inverno scuro e minaccioso vi sarà una rinascita. Con questa rinascita giunge anche la speranza per un futuro migliore, per un mondo nuovo e puro.

Infine, abbiamo il nome Z’man Cheiruteinu – la stagione della libertà.  Questo nome ci ricorda che Pesach contiene in sé la promessa di una liberazione finale per tutti i popoli. In ebraico, l’Egitto viene detto Mitzrayim – il luogo stretto. Durante il nostro pasto Seder, manteniamo la speranza che noi stessi, e tutti i popoli, possano fuggire dal loro luogo stretto. Speriamo in un mondo in cui si realizzi il sogno della libertà. Un mondo in cui tutti i popoli potranno conoscere la liberazione da qualsiasi forma di schiavitù.

La varietà di nomi evidenzia l'evoluzione di Pesach nel corso dei secoli.  Una Chag – una festa…quattro nomi.  I nomi ci insegnano che dobbiamo essere disposti a fare il primo passo. I nomi ci insegnano che dobbiamo sopprimere il nostro ego. I nomi ci insegnano che vi è speranza per un futuro migliore. Ed i nomi ci insegnano che la liberazione non è ancora finita, non per noi in quanto individui e non per il resto del mondo. La storia del viaggio dei nostri antenati israeliti dalla liberazione alla libertà, che noi, da popolo libero, raccontiamo al tavolo del Seder, ci ricorda che, anche se la libertà non è ancora una realtà, rimane il nostro obiettivo ultimo. 

Shabbat Shalom

Rabbi Donald Goor

La Parasha della settimana: Tisha B’Av

La porzione di Torah di questa settimana è tratta dal secondo libro del Deuteronomio. Il riassunto di cose già viste precedentemente nella Torah avvengono nel Deuteronomio ed in questa porzione abbiamo un ricapitolo dei dieci comandamenti, dello Shema e del V’ahavta.

                Questa settimana abbiamo anche ricordato il Tisha B’Av, un giorno importante di digiuno in cui ricordiamo le grandi tragedie della storia ebraica, in particolare la distruzione del tempio di Gerusalemme. In Israele è un vero e proprio giorno di lutto. La commemorazione comincia mercoledì sera con coloro che pregano seduti per terra, come se si stesse commemorando un caro estinto.  Seguono poi dei canti dal libro delle lamentazioni, e intonazioni di canzoni tristi. Dal tramonto fino alla sera del giorno seguente si digiuna, niente cibo, niente da bere, niente acqua. 

                Nonostante comprenda il grande significato di Tish B’Av’s, Io non digiuno. Per anni digiunai durante questo periodo per approfondire la mia comprensione delle grandi perdite che il nostro popolo subì e per commemorare la distruzione di Gerusalemme. Ma una volta trasferitomi in Israele, ed in particolare a Gerusalemme, smisi di digiunare. 

                Non digiuno per diversi motivi. La distruzione del tempio rese possibile lo sviluppo dell’ebraismo rabbinico e lo sviluppo di un ebraismo democratico che rappresenta il popolo più di quello che un ceto sacerdotale possa fare. Non rimpiango la fine di un sistema di caste, di sacrifici avvenuti nel tempio, o l’autorità riservata ai soli Kohanim. La distruzione del tempio portò anche allo sviluppo di un ebraismo liberale e con esso un senso maggiore di autonomia, il riconoscimento del diritto delle donne ad essere pienamente partecipi nella preghiera e riconosciute pienamente come membri della comunità, dato che in precedenza furono relegate fuori dalla tenda d’incontro. Pregare per la ricostruzione del tempio (che rappresenta una delle parti centrali delle preghiere del Tisha B’Av) negherebbe la democratizzazione e modernizzazione della sinagoga contemporanea e della comunità ebraica, cosi come la conosciamo oggi.

                Io non digiuno perché il mio digiuno rappresenterebbe non solo una richiesta che il tempio sia ricostruito, ma che Gerusalemme sia ricostruita. Io vivo in una Gerusalemme ricostruita.  E’ una città magnifica e moderna, una giustapposizione tra il moderno e l’antico e sta diventando sempre di più un centro di commercio, d’industria, ed un centro importante per tutto il Medio Oriente. Gerusalemme non è solo stata ricostruita, essa è in costante ricostruzione. Le pietre antiche si mescolano ai moderni grattacieli, le vie della vecchia città sono adiacenti ad un treno ad alta velocità che ti può portare da Gerusalemme a Tel Aviv in 28 minuti. 

                Il digiuno del Tisha B’Av lamenta la distruzione dell’unità ebraica. Ma questo concetto di unità è falso, una versione romantica del passato. Il popolo ebraico non è mai stato un tutt’uno. Negli antichi tempi vi furono lotte intestine tra gruppi e sette, in particolare fra i Sadducei ed i Farisei.  Oggi questa lotta intestina viene perpetuata con palese impunità e corruzione dai capi del rabbinato che macchiano il nome di Dio e la nostra tradizione nella loro interpretazione del loro stile di ebraismo che nega diritti a donne, ai non ebrei, ed ai membri della comunità LGBTQ.

                Io non commemorerò ne digiunerò questo Tisha B’Av perché la ricostruzione e nuova nascita del tempio sono predicate sull’oppressione di coloro che vivono in Israele: rifugiati, lavoratori stranieri, non ebrei, palestinesi e musulmani. Non posso digiunare questo Tisha B’Av quando il mio digiuno rappresenta la negazione dei diritti degli altri e la loro oppressione.

                Quindi come osserverò Tisha B’Av? Non uscirò per pranzo o per cena, invece, rimarrò a casa e leggerò l’antico libro delle lamentazioni e le parole moderne di poeti quali Yehudah Amichai, che comprendono la natura conflittuale di questa città santa che io chiamo casa.

                Durante Tisha B’Av cantiamo: “Riportaci, o Dio e noi torneremo”-questa è la frase finale del libro delle lamentazioni. Tis Tisha B’Av, prego che possiamo tornare ad un ebraismo e ad una Israele benedetta dalla giustizia e dalla bontà, dalla rettitudine e dalla pace.

Shabbat shalom.

Cantor Kent

Parasha della settimana: Devarim 24 luglio 2020

Il Febbraio scorso, prima che il Corona virus cambiasse le nostre vite e ci venisse detto di indossare maschere, di mantenere la distanza sociale, di lavare le mani più volte al giorno, e finissimo per acquistare grandi quantità di spray anti-virus, gel per le mani etc, ero negli Stati Uniti. Mi stavo esibendo nel mio one man show “Shards” per le sinagoghe Reform in Florida, Texas, e presso il Rodeph Sholom a New York.

Trovandomi casualmente a Manhattan, cerco di vedere dei musical a Broadway. Non vi è nulla di più di magico che entare in un teatro, cercare il proprio posto, accomodarsi, attendere che luci si abbassino, che cominic la ouverture, che si accendano i fari del palco, e che giungano gli attori. Non vi è nulla come il teatro: ogni esibizione è leggermente diversa, e c’é un’elettricità nell’aria che non può essere riprodotta in nessun’altra forma artistica.

L’ultimo spettacolo che vidi a Broadway fu l’esilarante “Hadestown”, (e quando i teatri riapriranno, e lo faranno, segnatevi questo nome), sono sicuro che arriverà anche in Italia. La trama è una reinterpretazione moderna della storia di Orfeo ed Euridice. Se avete presente questo mito greco vi ricorderete che Euridice finì negli Inferi e solo Orfeo poteva riportarla sulla terra, alla condizione che, durante il loro viaggio di ritorno dagli Inferi, Orfeo non si voltasse mai indietro per assicurarsi che Euridice lo stesse seguendo. Ma come spesso accade nei miti, lui si voltò e la sua amata ritornò per sempre negli Inferi.

Quindi, vi starete chiedendo, cosa ha a che fare questa storia con la porzione di Torah di questa settimana: Devarim (Deuteronomio)? Il Deuteronomio, nel quinto libro della Torah, non solo è il libro conclusivo dei cinque libri di Mosé, ma è anche un riassunto delle storie precedenti. Quando arriviamo al Deuteronomio sappiamo che stiamo giungendo alla fine di un ciclo annuale nella nostra lettura di Torah. Nel Deuteronomio incontreremo Mosè che ripeterà più volte agli Israeliti di obbedire Dio, di non abbandonare la strada che Dio ha creato per loro, di ricordare dove erano stati, di ricordare il loro viaggio e di non dimenticare che furono schiavi in Egitto. E poi, negli ultimi versi del libro, leggiamo della incombente morte di Mosè.

Sapendo che la sua morte è vicina, Mosè benedice gli Israeliti. Il suo tono cambia da genitore spesso arrabbiato a quello di padre amorevole e benedice tutte le tribù di Israele, offrendo loro un ricordo del passato e speranza per il futuro. In seguito a questo Mosè ascende presso il monte Nebo e muore.

Quindi, vi starete ancora chiedendo, quale è il nesso tra questo ed il musical, “Hadestown”. Alla conclusione di “Hadestown” il narratore si rivolge al pubblico e canta:

E’ una vecchia canzone...è una vecchia storia di anni fa...

E’ una vecchia canzone - e finisce così…

Questa canzone fu scritta tempo fa – e fa così.

E’ una canzone triste - una tragedia …

Ma la cantiamo lo stesso…

Perché il punto è sapere come finisce e cominciare a cantarla di nuovo lo stesso

Queste parole conclusive ci ricordano come, anche quando sappiamo come la storia finisce, la rileggiamo e la raccontiamo ancora ed ancora. Quando sentiamo del mito di Orfeo ed Euridice, speriamo che forse questa volta Orfeo non si volterà e che la coppia potrà tornare a vivere insieme. Quando leggiamo la Torah, vi è speranza che forse questa volta, giunti alla fine, invece di morire sul monte Nebo solo e vecchio, Mosè potrà raggiungere la terra promessa insieme al suo successore Giosuè.

Ma ogni volta che raccontiamo la storia Orfeo si volta, ed ogni volta che finiamo il Deuteronomio Mosè muore. Ed ogni volta, proprio come migliaia di anni fa, finito il libro di Devarim immediatamente torneremo all’inizio della Torah, ovvero alla storia della creazione.

Quindi unitevi a me nella lettura del Deuteronomio. Sappiamo già cosa succederà, ma ciò è il bello del raccontare una storia: per un breve attimo mettiamo da parte ciò che sappiamo, come se stessimo sentendola per la prima volta.

Come ci viene detto in “Hadestown”: La canteremo di nuovo…

Shabbat shalom.

Cantor Kent

Shabbat Parasha Noach - 1 Novembre

E il Signore disse a Noè “Costruisci un’Arca di legno di Gofer; falla a stanze, e spalmala di pece, di fuori e di dentro. E questa è la forma della quale tu la farai: la lunghezza di essa sia di trecento cubiti, e la larghezza di cinquanta cubiti, e l’altezza di trenta cubiti.

(Genesi 6:14-15)

In seguito a tutto ciò, il Signore chiamò nuovamente Noè dicendo: “Dov’è l’arca che ti ho ordinato di costruire?” E Noè rispose: “Perdonami, Signore, ma il mio appaltatore ha fatto confusione. La pece che mi hai comandato di utilizzare per impeciare l’arca di fuori e di dentro è stata consegnato all’indirizzo sbagliato, e il tipo che lavora al deposito di legname non sa cosa siano i cubiti. Sto cercando di fare del mio meglio.”

Il Signore si adirò e disse: “Così sia. E fai entrare nell’Arca una coppia di ogni animale per conservarli in vita teco, la terra è piena di violenza (hamas) ed io la distruggerò” (Genesi 6:11)

Ma così non fu. “Reboynah shel oylam, Signore dell’universo,” disse Noè “Ora i conducenti dei carri stanno scioperando. Gli uccelli di campagna si muovono solo a dozzine. Inoltre un gorilla maschio è impossibile da trovare, e credi sia facile trovare un idraulico durante il fine settimana? Signore, Signore, cosa posso fare?”

Il Signore non diede risposta, ma si pentì del suo piano di distruggere l’umanità. Gli esseri umani sembravano più che capaci di farlo da soli.

Non troverete questa storia nel Midrash, ma è comunque è una vecchia storia. Un racconto di frustrazione, irritazione ed esasperazione. Per tutte le cose che non vanno per il verso giusto, che vi fanno arrabbiare e che vi danno fastidio e provocano quel tipo di rabbia momentanea che non è tipica del vostro carattere. E’ una storia che racconta quegli eventi che portano allo stress che vengono dal vivere un’esistenza socialmente inter-connessa e inter-dipendente.

David mi ha raccontato la storia in cui lui si trovava dietro ad una signora in un emporio di alimentari. La signora stava urlando al cassiere, utilizzando un linguaggio scurrile e pieno di insulti. Quando David le chiese come mai si stesse comportando cosi, lei si scusò dicendo: “Ho prenotato un pranzo per 20 persone, e la persona che doveva aiutarmi non si è presentata”.

Nella porzione di Torah di questa settimana, Dio è preso dallo sconforto nei confronti del genere umano perché hanno riempito il mondo di hamas – solitamente questa parola viene tradotta come “mancanza di leggi”. Non sono in realtà sicuro che sappiamo esattamente cosa significhi hamas; ma, se Dio lo ritenne motivo per portare a termine l’esistenza umana, non era sicuramente qualcosa di buono. E’ interessante che nella porzione di Torah di settimana prossima, quando la moglie di Abramo, Sara, la matriarca, viene insultata dalla sua serva, Hagar, ella utilizzi la stessa parola per descrivere questa situazione quando ne parla con Abramo. “Hamasi, la mia hamas è causa tua.”(Genesi 16.5) Non credo che le due situazioni abbiano ugual peso o conseguenze. Ma cosi è. Quante volte sentiamo che certe situazioni fastidiose ed irritanti siano “la fine del mondo”.

Quando reagiamo spropositatamente alle piccole cose, ci viene facile ignorare la dignità altrui, e così facendo perdiamo la nostra al contempo. La frustrazione è, beh… frustrante; ma una persona può irritarsi e resistere alla tentazione di comportarsi in maniera disumana. Se abbastanza persone perdono la pazienza sarà la fine della vita civilizzata su questa terra, e lo sappiamo bene.

La mia amica Ellen ebbe a che fare con un inquilino alquanto difficile che aveva preso in affitto il suo appartamento. Costui tendeva ad esagerare nelle sue lamentele. Ce ne furono diverse di lamentele, e lui tendeva a comunicarle in maniera drammatica. In fine quando descrisse “disastroso” una decolorazione della boiacca delle piastrelle del bagno, Ellen mi disse, “E’ diventata una mia missione aiutare questo giovane nel distinguere fra tragedia e fastidio.”

Amici, ogni tanto dobbiamo riprenderci. Fare un respiro, rilassarci. Perché, proprio come il nostro agente di viaggio ci disse prima del nostro viaggio in India, “Non tutto andrà per il verso giusto". Perciò quando vi sentite sul punto di esplodere, quando una macchina vi taglia la strada nel traffico, oppure state aspettando quella consegna che vi era stata promessa settimane fa, fate un respiro. Contate fino a dieci. Non viviamo in Siria; e dopo tutto si tratta per la maggior parte di boiacca delle piastrelle.

Shabbat Shalom

Rabbi Whiman

Shabbat Berashit 25 Ottobre, 2019

C’è un uomo nel Vermont che crea dei puzzle. Sono cose intricate e bellissime, fatte con ironia, con un senso artistico e con umorismo. Il mio preferito è quello che può essere assemblato in quattro maniere diverse, con tre di queste maniere che non possono essere completate. Non è possibile incastrare l’ultimo pezzo, e lo spazio lasciato nel mezzo del puzzle forma la sagoma di un diavolo. Può solo essere capito a fondo quando si sono messi assieme tutti i pezzi.

Lo stesso vale per le feste ebraiche autunnali. Giungono in modo rapido e tempestoso con la nuova luna del Tishrei, ognuna di esse rappresenta un pezzo necessario a comporre un puzzle finale. In altre parole, l’ebraismo è qualcosa che necessita di un assemblaggio.

In primis abbiamo Elul, il mese che precede Rosh Ha-shanah, un momento di preparativi e di analisi. Con l’arrivo del giorno del giudizio, ciò che abbiamo fatto viene giudicato. Shabbat Shuvah ci consiglia di riprendere la via della rettitudine e della benedizione. A Yom Kippur cerchiamo penitenza e perdono. Queste quattro feste rappresentano un’analisi introspettiva. Il nostro dovere spirituale è personale. Queste feste hanno una forte caratteristica di sobrietà e serietà.

Poi arriva Sukkot, la festa della gioia. Ora possiamo guardarci da fuori e ci vediamo nel contesto dell’universo, con un Dio così vasto che va oltre la nostra immaginazione e comprensione. Ci si posiziona all’interno dell’immensità del creato. Per questo il tetto della sukkah deve essere a cielo aperto. Ora, non tutto ruota attorno a noi. Ma appena iniziate a sentirvi insignificanti, giunge Simchat Torah, che ci insegna che il Dio infinito del creato si posizione in un rapporto intimo ed amorevole con voi e la vostra comunità. Simbolo e dimostrazione di questo è il rapporto con la Torà.

Perciò danziamo. Perché ora tutti i pezzi del puzzle vanno insieme. Tutto parla di noi ma non solo di noi. È qualcosa che fa riflettere ma è un emozione esilarante allo stesso tempo. Necessitiamo di tutti gli elementi-penitenza, introspezione, gioia, rapporto e contesto - per ottenere un quadro dell’ebraismo e di cosa rappresenta.

La Torà dice che colui che non osserva Yom Kippur si isola dalla gente. Forse è per questo che così tante persone si palesano alla fine del giorno della penitenza. Ma ciò che so per certo è che se perdete l’occasione di osservare e festeggiare tutte le feste, TUTTE, avrete un puzzle fatto a metà e quindi una visione incompleta per ciò che concerne quello che la vostra fede vuole farvi sapere di voi e della vostra comunità

Shabbat Shalom

Rabbi Whiman

Shabbat Chol Ha’moed Sukkot 18 Ottobre, 2019

Nel corso degli anni ho scoperto di avere un rapporto di amore e odio con Sukkot. Durante il periodo in cui lavoravo a Boston era la mia festa preferita. Nel New England Sukkot è una festa autunnale al 100%, l’aria è fresca, le mele sono croccanti e la luce del sole diventa deliziosa. Puoi passare delle ore ad oziare “nella tua capanna” e non stai buttando via del tempo. A Houston, dove ho lavorato per diversi anni, temevo l’arrivo di Sukkot. Nel Texas l’estate si protrae ben oltre Ottobre. Quando giunge questa festa la temperatura è ancora elevata, l’umidità è pazzesca e le zanzare sono fameliche. Passare anche solo 10 minuti in una sukkah a Houston equivale ad una punizione. 

Indipendentemente da dove vi trovate, la Torà considera questa festa come he-chag, la festa per eccellenza; ed il nostro libro di preghiere la definisce come zeman simchatynu, la stagione in cui rallegrarsi. Quindi, se Rosh Hashanah vuol dire giudizio e Yom Kippur vuol dire penitenza, Sukkot vuol dire gioia. In seguito al pesante esame di autovalutazione che ci catapulta nell’anno nuovo, è una consolazione potersi concentrare sulla felicità. 

In Israele, nell’antichità, Sukkot rappresentava l’ultima festa avente come tema il raccolto. Tutto era stato raccolto e, in quanto popolo agricolo, ciò era motivo di giubilo, di libertà dal lavoro e dalle preoccupazioni. Nel Levitico, la Torà ci ordina “Prendete i rami di una palma, le foglie di mirtillo e salice, e il frutto di un albero (lulav ed etrog) e giubilate dinnanzi al Signore per sette giorni”. Il motivo per cui queste quattro specie di flora siano motivo di giubilo e dovrebbero portare gioia, francamente mi sfugge. Forse queste quattro specie sono una scusa per considerare le domande : “Cos’è la gioia?” e “Quali sono quelle cose che portano vero piacere in vita e nella nostra quotidianità?” 

Felicità e gioia non sono la stessa cosa. Entrambe sono emozioni degne e positive. La felicità deriva da persone o cose esterne ed è spesso causata da altre persone, luoghi, pensieri e cose. Di conseguenza, tende ad essere momentanea e viene da una contentezza a breve termine. La felicità è passeggera. È situazionale. La gioia d’altro canto è indipendente dalle circostanze del momento. Viene da dentro. La gioia nasce quando facciamo la pace con noi stessi, con quello che siamo e come siamo. 

È interessante che l’ebraico abbia ben 10 parole per la sola parola “gioia”. Vedo questo fatto come indice che l’ebraismo prevedeva che avremmo avuto una tale abbondanza di gioia da aver bisogno di dieci parole per descrivere le variazioni, sottigliezze e sfumature per ciò che concerne questa emozione. La gioia è sicuramente un concetto difficile da considerare. E se ci pensiamo: come si può comandare a qualcuno di essere gioioso? Così facendo, non sarebbe un’emozione finta?

Nella spesso ripetuta seconda parte dello Shema, la v’ahavtah, ci viene detto: “Amerai il Signore, tuo Dio”. Quando gli viene chiesto come qualcuno possa amare qualcosa o qualcuno a comando, Martin Buber spiega che l’unico risultato ragionevole e prevedibile di una vera comprensione di Dio sia di provare amorevole adorazione. Il concetto non è il medesimo per ciò che riguarda altri esseri umani. L’ingiunzione, “Ama il tuo prossimo come te stesso” è meglio tradotta come “Agisci in maniera amorevole verso il tuo prossimo” anche se questi ti è antipatico. 

Quindi, come può la Torà comandarci di gioire? La gioia è amore. Nella Sukkah – perdonati e riconciliati con il Creatore, circondati da un’abbondante raccolto, dai propri cari ed da ospiti, riposandovi dalla stanchezza e lo stress del vostro lavoro — il risultato prevedibile e ragionevole dovrebbe essere gioia. Ma oltre queste benedizioni vi è di più. Se alzate il volto verso il cielo dalla vostra capanna, e scorgete la vastità e infinità dei cieli, come si può non provare gioia che il Padrone e Creatore del cielo e della terra abbia attenzioni per voi? E non solo mere attenzioni, ma piene di amore e dedizione. È un sollievo sapere che non dipendo completamente da cosa gli altri dicono o scrivono sulla mia pagina Facebook per sentirmi meglio. Dovrebbe essere come descritto nel libro del  Nehemiah: “La gioia del Signore è la tua forza.”

 Chi, perché e cosa siamo? Sukkot ci dà la risposta: un po’ meno che angeli, ma dotati e sostenuti da un’inalienabile dignità e valore. E se potete tenere questo concetto a mente, il sapere che la Fonte dell’Universo gioisce del vostro essere voi stessi, potrete emergere gioiosi dalla vostra Sukkah o comunque rafforzati e pronti per le sfide della vita. 

Chag Saeach. Felice, o meglio ancora, abbiate un Sukkot gioioso.

Rabbi Whiman

 

Shabbat Shuvah 4 ottobre 2019

Nell’imminente Giorno dell’Espiazione confesseremo i nostri peccati. Reciteremo una vera litania di trasgressioni. Ashamnu, bagadnu, dibarnu dofi. Abbiamo peccato. Abbiamo trasgredito. Abbiamo preso la strada sbagliata. Il libro delle preghiere lo chiama il catalogo dei dolori.

Nonostante qualcuno possa non essere d’accordo, trovo grande significato e, sì, perfino saggezza in questa deprimente enumerazione di azioni commesse e non commesse. Poiché che altro è questo catalogo dei nostri fallimenti se non la fotografia in negativo, l’immagine al contrario di come ci si aspetta che conduciamo le nostre vite? Sì, confessiamo indifferenza, disonestà, irresponsabilità. Il che significa solo che ci viene comandato di essere onesti, responsabili e compassionevolmente preoccupati dei bisogni degli altri.

Ma perché dipingere l’immagine in toni tanto cupi? Perché non evidenziare il positivo e la nostra capacità di raggiungere risultati elevati? Non sarebbe meglio fare appello ai nostri istinti superiori? La risposta a questa domanda è no.

I nostri saggi hanno scritto dello yetzer, un’energia umana straordinariamente primordiale, e hanno parlato di due impulsi, due pulsioni dentro di noi. Una, lo yetzer tov, è la nostra buona inclinazione, mentre l’altra è l’inclinazione al male, lo yetzer hara. E i rabbini hanno aggiunto che l’inclinazione al male ha 13 anni più di quella buona. In altre parole, l’inclinazione al male è presente virtualmente dalla nascita. L’inclinazione al bene appare molto più tardi.

Il problema è che l’impulso a cedere allo yetzer hara è forte. La buona notizia è che siamo in grado di vincere questo impulso e spesso lo dominiamo. La notizia migliore è che, anche dopo aver ceduto allo yetzer hara, siamo in grado di crescere e cambiare, e quando lo facciamo la nostra tradizione lo chiama tshuvah, pentimento, ritorno. Questo Shabbat è conosciuto come Shabbat Shuvah, lo Shabbat del Ritorno.

L’espiazione e il ritorno, tuttavia, si basano sulla nostra capacità di riconoscere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, e di vedere dove e come ci siamo smarriti. Per questo motivo Yom Kippur ci fornisce un catalogo di errori ed evidenzia tutto ciò in cui abbiamo fallito.

I nostri saggi insegnano che l’arma più grande contro l’impulso malvagio è la Torah. La Torah qui è da intendere come una bussola morale che descrive un ordine di vita che non deve essere violato. Ci sono azioni che non devono essere compiute. L’elenco di tali azioni costituisce i dettagli della nostra confessione di Yom Kippur.

Alcuni anni fa ci fu un incontro di pugilato a New York. L’ex campione dei pesi massimi George Foreman era presente, e quella notte nell’arena si scatenò l’inferno. I pugili, i loro manager, perfino gli spettatori sugli spalti iniziarono a picchiarsi l’un l’altro. Ci vollero 150 poliziotti per riportare la situazione sotto controllo. Quella notte George Foreman ebbe un ruolo importante nell’aiutare a ristabilire l’ordine. Era in piedi sul ring, una presenza alta, possente e imponente, e quando qualcuno stava per iniziare a fare qualcosa di distruttivo, Forman si limitava a guardarlo e diceva con calma: “Non vuoi farlo. Non vuoi farlo”.

Un mondo con la Torah ha una luce guida, un messaggio ripetuto continuamente che dice, rispetto a certe cose: “Non vuoi farlo”. E se lo fai, sei tenuto a provare senso di colpa e rimorso e perfino vergogna. Per questo la nostra confessione è formulata in modo negativo. Certe cose sono inaccettabili, e se hai commesso tali cose hai bisogno di pentimento, perdono e ritorno. Un mondo con la Torah è un mondo in cui, quando abbiamo violato la legge morale, lo sappiamo.

La grande tragedia dei nostri tempi è che così tanti hanno negato la distinzione tra il bene e il male. Quando tutta la virtù è relativa, lo è anche il vizio. Ma Yom Kippur viene per dirci che ci sono cose che non dobbiamo fare. I principi sono semplici. Applicarli può essere difficile.

 In questo periodo siamo chiamati ad applicare i principi alle nostre vite, perché i principi sono giusti, e a non abbandonare mai i principi solo perché lo sforzo è duro.

Perché? Perché voi ed io abbiamo la capacità di fare molto bene e molto male. Ciascuno di noi continua ad essere un campo di battaglia tra yetzer tov e yetzer hara. Abbandonare i nostri principi, la nostra bussola morale, significa cedere all’inclinazione malvagia, e io sono qui per dirvi: “Non volete farlo”.

 Shabbat Shalom

g’mar chatimah tovah.

Possiate ricevere un sigillo finale di benedizione nel Libro della Vita.

Shabbat Shalom

Rabbi Whiman

Shabbat Ki Tavo 20 Settembre, 2019

Dalla porzione di Torà di questa settimana : “Avete affermato oggi che il Signore è il vostro Dio…e Dio ha affermato che voi siete il suo popolo prediletto. (Deuteronomio 26:17-18)

La parola “affermato” è una di una miriade di traduzioni dall’ebraico. Troviamo anche “dichiarato”, “riconosciuto”, “scelto” e “promesso”. In ebraico è una forma del verbo “dire” o “parlare”. La stessa parola che viene utilizzata più volte nel racconto della creazione : “E Dio disse “Che sia fatta…e cosi fu.”

Nell’ebraismo ci viene ricordato più volte il potere che hanno le parole. Hanno la capacità di definire, nominare, chiarire, creare e di fare molti danni. Con l’arrivo delle festività sacre ci viene chiesto di riflettere su come abbiamo utilizzato questo grande potere e il potenziale delle nostre parole.

Ci sono diversi aforismi rabbinici che ci mettono in guardia dalle parole. “Le parole sono come frecce. Una volta scagliate, non possono essere richiamate.” “Cosi potente è la lingua, che viene tenuta dietro a due cancelli, i denti e le labbra. Meglio tenere serrati entrambi.”

La lista integrale di confessioni di Yom Kippur contiene cinquantaquattro tipi di trasgressioni. I peccati verbali sono molto numerosi in questo elenco.

Spergiurare, spettegolare, calunniare e mal rappresentare. La lista è lunga.

Nell’anno appena passato non riesco a pensare ad un’occasione in cui feci del male fisico a qualcuno, ma mi ricordo situazioni in cui delle parole che ho espresso in malo modo hanno ferito qualcuno, e altre circostanze in cui la mancanza di una parola di conforto o di consiglio hanno senza intenzione causato ancor più dolore. Credo di non essere il solo.

Per il peccato commesso per parole dette o non dette ci viene consigliato di cercare e chiedere perdono. In un momento di accesa discussione abbiamo tutti detto cose di cui ci siamo poi pentiti. Ed è però grazie a questa stessa azione di esprimerci che, in una situazione del genere, possiamo formulare delle scuse e cercare di fare pace con il nostro prossimo. Con le nostre parole possiamo incoraggiare, dare sostegno, rincuorare e rallegrare gli altri. Purtroppo, sono in tanti che oggi sperano in parole di lode, affermazione, accettazione o amore - parole mai ricevute ma comprensibilmente aspettate da coloro a cui siamo legati da rapporti di famiglia. Il silenzio non è sempre d’oro.

Sotto il baldacchino cerimoniale, due sposi si promettono l’uno all’altra e creano una casa con il pronunciare di loro parole che legano insieme le loro vite. I versi biblici sopraccitati sottolineano anche il potere della parola nel creare e legare. L’affermazione - l’esprimere parole l’uno verso l’altro - crea un rapporto, un legame, un patto tra Dio ed Israele. Lo stesso vale per qualsiasi comunità. Il modo in cui ci parliamo o in cui tratteniamo le parole-in strada, in un negozio, al telefono o in internet-determinerà in gran parte il tipo di mondo in cui vivremo e che aiuteremo a creare.

Che quel mondo sia uno di benedizioni, dove le parole pronunciate dalle nostre bocche e le mediazioni dei nostri cuori ci leghino in rapporti reciproci di amore, premura e rispetto.

Shabbat Shalom

Rabbi Whiman

Shabbat Ki Teitzei 13 Settembre, 2019

Nella lettura della Torà di questa settimana ci viene presentato un lungo elenco di leggi e statuti – più mitzvot che in qualsiasi altra porzione del pentateuco. Alcuni comandamenti sono eticamente giusti. Alcuni sono curiosi e altri potrebbero sembrare addirittura barbarici. Cosa dovremmo pensare di passaggi che comandano la lapidazione di bambini pestiferi e di flagranti adulteri? Ordini che, secondo la Torà, sono necessari per estirpare il male dal mondo.

Secondo la tradizione ebraica, il pentateuco in forma integrale fu dato a Mosè sul monte Sinai - in parte in forma scritta (I dieci comandamenti), il resto oralmente e poi trascritto da Mosè stesso – con anche la parte finale del Deutoronomio che descrive ciò che succede dopo la morte di Mosè . L’autorevolezza del testo poggia sulla sua fonte divina e sulla fiducia che abbiamo di avere la versione uguale a come era stata originalmente creata dall’alto. In breve, questo è un punto di vista ortodosso della Torà.

Al seguito della comparsa dei rabbini - diversi secoli dopo gli eventi sul Sinai – vi fu un intera serie di commenti attorno al sacro testo. I saggi non potevano riscrivere la Torà, ma la potevano interpretare. Quindi, quando con preoccupazione si trovarono di fronte a un testo apparentemente barbarico (come lo considero io, ma loro non si furono mai espressi in questo modo), decisero di rendere praticamente impossibile la messa in atto di questa ingiunzione, tramite una serie di pre-codinzioni. Oppure insisterono che il testo non poteva voler dire ciò che sembrava significasse. La loro sfida era liberare il testo dai suoi vincoli temporali e di luogo in cui era stato donato e riuscire a tener fede al suo spirito sacro e autorevole allo stesso tempo.

L’ebraismo liberale ha una diversa serie di sfide per ciò che concerne la lettura e comprensione della Torà. Possiamo abbracciare il concetto che la Torà sia un documento storico scritto durante un certo periodo e conseguentemente riflette il linguaggio di allora e non necessariamente il nostro. Possiamo abbracciare le interpretazioni più recenti che a fatica cercano di dare un senso ai testi ereditati da un loro lontano passato. Possiamo limitarci a leggere quei passaggi meno illuminati o considerarli come frutto di un periodo storico primitivo. Ma se seguiamo questo processo, come possiamo continuare a considerare questo testo sacro e autorevole, decidendo di ignorare certi versi?

Credo che si possa dire che decidiamo di adottare un metodo completamente diverso di interpretazione. Decidiamo di non partire con l’assunto di sacralità del testo per intero, invece cerchiamo questa sacralità all’interno del testo nella sua interezza. Per gli ebrei liberali, la nostra Torà non è esattamente un’opera consegnataci da Dio ma più una cronaca della nostra ricerca per raggiungere Dio. Conseguentemente, attribuiamo significati di sacralità e autorevolezza a quei passaggi che per noi sembrano avere raggiunto quei livelli etico/morali che consideriamo divini. Sicuramente si tratta di un approccio non ortodosso ma non vuol dire che sia meno devoto, pio o rispettoso.

Possiamo metterla così. Affronterei un edificio in fiamme per salvare una pergamena di Torà? Mi piace pensare che lo farei.

Shabbat Shalom

Rabbi Whiman

Shabbat Shoftim 6 Settembre, 2019

Rabbi Whiman’s Blog

Con questo Shabbat ci troviamo a metà del Deuteronomio. Parashat Shoftim inizia con l’ordine di scegliere giudici e magistrati per il nuovo territorio di appartenenza e continua con uno dei grandi passaggio dalla Torà: Giustizia, giustizia sarà ciò che perseguirete.

Tzedek, tzedek tirdof - Il fatto che la parola “giustizia” venga ripetuta due volte indica l’importanza che la Torà dà a questo concetto, mentre la scelta del verbo “perseguire” illustra quanto sia difficile mettere questo principio teorico in pratica.

La giustizia è complicata perché l’opposto della giustizia non è necessariamente ingiustizia- l’opposto valutativo in molti casi è il grado della pietà. Per far si che i giudici giudichino in maniera giusta devono bilanciare i gradi di entrambe.

I rabbini ci spiegano che i nomi principali di Dio-Adonai ed Elohim- indicano in alcuni casi che egli regna dal trono della pietà ed in altri dal trono della giustizia. Col giungere di Rosh Hashanah, e con esso dell’attesa del mondo per ciò che riguarda il giudizio di Dio, imploriamo il creatore di riconoscere entrambi i lati quando viene espresso il verdetto divino.

Vi é anche un Midrash che ci racconta che il nostro mondo non fu il primo. Il primo mondo creato da Dio si basava interamente sul concetto di giustizia. A tutti veniva dato ciò che meritavano. La vita era puramente giusta. Ma questo mondo si sfaldò rapidamente e la creazione risultò insostenibile. Quindi Dio ci provò di nuovo con un esercizio esclusivo di pietà. In questo caso, nessuno risultava colpevole. La gente veniva semplicemente compresa e perdonata per i propri misfatti: anche quest’ultimo risultò insostenibile. Conseguentemente Dio combinò i gradi di giustizia e pietà, ed il mondo che ne risultò, il nostro, è risultato essere sostenibile per gli ultimi 5780 anni.

Con l’avvicinarsi dell’anno nuovo e con la nostra conseguente preparazione del nostro annuale cheshbon hanefesh – la tradizionale valutazione dei nostri giorni e di ciò che abbiamo fatto nel corso dell’anno- ci viene chiesto di giudicare come abbiamo gestito il dono della vita a noi dato. Per poterci valutare in maniera giusta anche noi dobbiamo tenere conto di verità, responsabilità, colpe, comprensione, pietà e perdono. Questo perché nessuno può rimanere esposto solo alla crudele luce della giustizia. In modo che qualsiasi vita umana possa essere sostenibile, la giustizia e la pietà devono andare di pari passo.

Durante questa stagione ci sediamo a fianco di Dio nel giudicare il nostro vissuto. Dopo aver pronunciato un verdetto giusto e onesto, Dio ci incoraggia ad andare avanti. A fare meglio. A correggere i misfatti del cuore. A fare di questo mondo una benedizione.

Shabbat Shalom

Rabbi Whiman