Parasha

Shabbat Berashit 25 Ottobre, 2019

C’è un uomo nel Vermont che crea dei puzzle. Sono cose intricate e bellissime, fatte con ironia, con un senso artistico e con umorismo. Il mio preferito è quello che può essere assemblato in quattro maniere diverse, con tre di queste maniere che non possono essere completate. Non è possibile incastrare l’ultimo pezzo, e lo spazio lasciato nel mezzo del puzzle forma la sagoma di un diavolo. Può solo essere capito a fondo quando si sono messi assieme tutti i pezzi.

Lo stesso vale per le feste ebraiche autunnali. Giungono in modo rapido e tempestoso con la nuova luna del Tishrei, ognuna di esse rappresenta un pezzo necessario a comporre un puzzle finale. In altre parole, l’ebraismo è qualcosa che necessita di un assemblaggio.

In primis abbiamo Elul, il mese che precede Rosh Ha-shanah, un momento di preparativi e di analisi. Con l’arrivo del giorno del giudizio, ciò che abbiamo fatto viene giudicato. Shabbat Shuvah ci consiglia di riprendere la via della rettitudine e della benedizione. A Yom Kippur cerchiamo penitenza e perdono. Queste quattro feste rappresentano un’analisi introspettiva. Il nostro dovere spirituale è personale. Queste feste hanno una forte caratteristica di sobrietà e serietà.

Poi arriva Sukkot, la festa della gioia. Ora possiamo guardarci da fuori e ci vediamo nel contesto dell’universo, con un Dio così vasto che va oltre la nostra immaginazione e comprensione. Ci si posiziona all’interno dell’immensità del creato. Per questo il tetto della sukkah deve essere a cielo aperto. Ora, non tutto ruota attorno a noi. Ma appena iniziate a sentirvi insignificanti, giunge Simchat Torah, che ci insegna che il Dio infinito del creato si posizione in un rapporto intimo ed amorevole con voi e la vostra comunità. Simbolo e dimostrazione di questo è il rapporto con la Torà.

Perciò danziamo. Perché ora tutti i pezzi del puzzle vanno insieme. Tutto parla di noi ma non solo di noi. È qualcosa che fa riflettere ma è un emozione esilarante allo stesso tempo. Necessitiamo di tutti gli elementi-penitenza, introspezione, gioia, rapporto e contesto - per ottenere un quadro dell’ebraismo e di cosa rappresenta.

La Torà dice che colui che non osserva Yom Kippur si isola dalla gente. Forse è per questo che così tante persone si palesano alla fine del giorno della penitenza. Ma ciò che so per certo è che se perdete l’occasione di osservare e festeggiare tutte le feste, TUTTE, avrete un puzzle fatto a metà e quindi una visione incompleta per ciò che concerne quello che la vostra fede vuole farvi sapere di voi e della vostra comunità

Shabbat Shalom

Rabbi Whiman

Shabbat Chol Ha’moed Sukkot 18 Ottobre, 2019

Nel corso degli anni ho scoperto di avere un rapporto di amore e odio con Sukkot. Durante il periodo in cui lavoravo a Boston era la mia festa preferita. Nel New England Sukkot è una festa autunnale al 100%, l’aria è fresca, le mele sono croccanti e la luce del sole diventa deliziosa. Puoi passare delle ore ad oziare “nella tua capanna” e non stai buttando via del tempo. A Houston, dove ho lavorato per diversi anni, temevo l’arrivo di Sukkot. Nel Texas l’estate si protrae ben oltre Ottobre. Quando giunge questa festa la temperatura è ancora elevata, l’umidità è pazzesca e le zanzare sono fameliche. Passare anche solo 10 minuti in una sukkah a Houston equivale ad una punizione. 

Indipendentemente da dove vi trovate, la Torà considera questa festa come he-chag, la festa per eccellenza; ed il nostro libro di preghiere la definisce come zeman simchatynu, la stagione in cui rallegrarsi. Quindi, se Rosh Hashanah vuol dire giudizio e Yom Kippur vuol dire penitenza, Sukkot vuol dire gioia. In seguito al pesante esame di autovalutazione che ci catapulta nell’anno nuovo, è una consolazione potersi concentrare sulla felicità. 

In Israele, nell’antichità, Sukkot rappresentava l’ultima festa avente come tema il raccolto. Tutto era stato raccolto e, in quanto popolo agricolo, ciò era motivo di giubilo, di libertà dal lavoro e dalle preoccupazioni. Nel Levitico, la Torà ci ordina “Prendete i rami di una palma, le foglie di mirtillo e salice, e il frutto di un albero (lulav ed etrog) e giubilate dinnanzi al Signore per sette giorni”. Il motivo per cui queste quattro specie di flora siano motivo di giubilo e dovrebbero portare gioia, francamente mi sfugge. Forse queste quattro specie sono una scusa per considerare le domande : “Cos’è la gioia?” e “Quali sono quelle cose che portano vero piacere in vita e nella nostra quotidianità?” 

Felicità e gioia non sono la stessa cosa. Entrambe sono emozioni degne e positive. La felicità deriva da persone o cose esterne ed è spesso causata da altre persone, luoghi, pensieri e cose. Di conseguenza, tende ad essere momentanea e viene da una contentezza a breve termine. La felicità è passeggera. È situazionale. La gioia d’altro canto è indipendente dalle circostanze del momento. Viene da dentro. La gioia nasce quando facciamo la pace con noi stessi, con quello che siamo e come siamo. 

È interessante che l’ebraico abbia ben 10 parole per la sola parola “gioia”. Vedo questo fatto come indice che l’ebraismo prevedeva che avremmo avuto una tale abbondanza di gioia da aver bisogno di dieci parole per descrivere le variazioni, sottigliezze e sfumature per ciò che concerne questa emozione. La gioia è sicuramente un concetto difficile da considerare. E se ci pensiamo: come si può comandare a qualcuno di essere gioioso? Così facendo, non sarebbe un’emozione finta?

Nella spesso ripetuta seconda parte dello Shema, la v’ahavtah, ci viene detto: “Amerai il Signore, tuo Dio”. Quando gli viene chiesto come qualcuno possa amare qualcosa o qualcuno a comando, Martin Buber spiega che l’unico risultato ragionevole e prevedibile di una vera comprensione di Dio sia di provare amorevole adorazione. Il concetto non è il medesimo per ciò che riguarda altri esseri umani. L’ingiunzione, “Ama il tuo prossimo come te stesso” è meglio tradotta come “Agisci in maniera amorevole verso il tuo prossimo” anche se questi ti è antipatico. 

Quindi, come può la Torà comandarci di gioire? La gioia è amore. Nella Sukkah – perdonati e riconciliati con il Creatore, circondati da un’abbondante raccolto, dai propri cari ed da ospiti, riposandovi dalla stanchezza e lo stress del vostro lavoro — il risultato prevedibile e ragionevole dovrebbe essere gioia. Ma oltre queste benedizioni vi è di più. Se alzate il volto verso il cielo dalla vostra capanna, e scorgete la vastità e infinità dei cieli, come si può non provare gioia che il Padrone e Creatore del cielo e della terra abbia attenzioni per voi? E non solo mere attenzioni, ma piene di amore e dedizione. È un sollievo sapere che non dipendo completamente da cosa gli altri dicono o scrivono sulla mia pagina Facebook per sentirmi meglio. Dovrebbe essere come descritto nel libro del  Nehemiah: “La gioia del Signore è la tua forza.”

 Chi, perché e cosa siamo? Sukkot ci dà la risposta: un po’ meno che angeli, ma dotati e sostenuti da un’inalienabile dignità e valore. E se potete tenere questo concetto a mente, il sapere che la Fonte dell’Universo gioisce del vostro essere voi stessi, potrete emergere gioiosi dalla vostra Sukkah o comunque rafforzati e pronti per le sfide della vita. 

Chag Saeach. Felice, o meglio ancora, abbiate un Sukkot gioioso.

Rabbi Whiman

 

Shabbat Shuvah 4 ottobre 2019

Nell’imminente Giorno dell’Espiazione confesseremo i nostri peccati. Reciteremo una vera litania di trasgressioni. Ashamnu, bagadnu, dibarnu dofi. Abbiamo peccato. Abbiamo trasgredito. Abbiamo preso la strada sbagliata. Il libro delle preghiere lo chiama il catalogo dei dolori.

Nonostante qualcuno possa non essere d’accordo, trovo grande significato e, sì, perfino saggezza in questa deprimente enumerazione di azioni commesse e non commesse. Poiché che altro è questo catalogo dei nostri fallimenti se non la fotografia in negativo, l’immagine al contrario di come ci si aspetta che conduciamo le nostre vite? Sì, confessiamo indifferenza, disonestà, irresponsabilità. Il che significa solo che ci viene comandato di essere onesti, responsabili e compassionevolmente preoccupati dei bisogni degli altri.

Ma perché dipingere l’immagine in toni tanto cupi? Perché non evidenziare il positivo e la nostra capacità di raggiungere risultati elevati? Non sarebbe meglio fare appello ai nostri istinti superiori? La risposta a questa domanda è no.

I nostri saggi hanno scritto dello yetzer, un’energia umana straordinariamente primordiale, e hanno parlato di due impulsi, due pulsioni dentro di noi. Una, lo yetzer tov, è la nostra buona inclinazione, mentre l’altra è l’inclinazione al male, lo yetzer hara. E i rabbini hanno aggiunto che l’inclinazione al male ha 13 anni più di quella buona. In altre parole, l’inclinazione al male è presente virtualmente dalla nascita. L’inclinazione al bene appare molto più tardi.

Il problema è che l’impulso a cedere allo yetzer hara è forte. La buona notizia è che siamo in grado di vincere questo impulso e spesso lo dominiamo. La notizia migliore è che, anche dopo aver ceduto allo yetzer hara, siamo in grado di crescere e cambiare, e quando lo facciamo la nostra tradizione lo chiama tshuvah, pentimento, ritorno. Questo Shabbat è conosciuto come Shabbat Shuvah, lo Shabbat del Ritorno.

L’espiazione e il ritorno, tuttavia, si basano sulla nostra capacità di riconoscere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, e di vedere dove e come ci siamo smarriti. Per questo motivo Yom Kippur ci fornisce un catalogo di errori ed evidenzia tutto ciò in cui abbiamo fallito.

I nostri saggi insegnano che l’arma più grande contro l’impulso malvagio è la Torah. La Torah qui è da intendere come una bussola morale che descrive un ordine di vita che non deve essere violato. Ci sono azioni che non devono essere compiute. L’elenco di tali azioni costituisce i dettagli della nostra confessione di Yom Kippur.

Alcuni anni fa ci fu un incontro di pugilato a New York. L’ex campione dei pesi massimi George Foreman era presente, e quella notte nell’arena si scatenò l’inferno. I pugili, i loro manager, perfino gli spettatori sugli spalti iniziarono a picchiarsi l’un l’altro. Ci vollero 150 poliziotti per riportare la situazione sotto controllo. Quella notte George Foreman ebbe un ruolo importante nell’aiutare a ristabilire l’ordine. Era in piedi sul ring, una presenza alta, possente e imponente, e quando qualcuno stava per iniziare a fare qualcosa di distruttivo, Forman si limitava a guardarlo e diceva con calma: “Non vuoi farlo. Non vuoi farlo”.

Un mondo con la Torah ha una luce guida, un messaggio ripetuto continuamente che dice, rispetto a certe cose: “Non vuoi farlo”. E se lo fai, sei tenuto a provare senso di colpa e rimorso e perfino vergogna. Per questo la nostra confessione è formulata in modo negativo. Certe cose sono inaccettabili, e se hai commesso tali cose hai bisogno di pentimento, perdono e ritorno. Un mondo con la Torah è un mondo in cui, quando abbiamo violato la legge morale, lo sappiamo.

La grande tragedia dei nostri tempi è che così tanti hanno negato la distinzione tra il bene e il male. Quando tutta la virtù è relativa, lo è anche il vizio. Ma Yom Kippur viene per dirci che ci sono cose che non dobbiamo fare. I principi sono semplici. Applicarli può essere difficile.

 In questo periodo siamo chiamati ad applicare i principi alle nostre vite, perché i principi sono giusti, e a non abbandonare mai i principi solo perché lo sforzo è duro.

Perché? Perché voi ed io abbiamo la capacità di fare molto bene e molto male. Ciascuno di noi continua ad essere un campo di battaglia tra yetzer tov e yetzer hara. Abbandonare i nostri principi, la nostra bussola morale, significa cedere all’inclinazione malvagia, e io sono qui per dirvi: “Non volete farlo”.

 Shabbat Shalom

g’mar chatimah tovah.

Possiate ricevere un sigillo finale di benedizione nel Libro della Vita.

Shabbat Shalom

Rabbi Whiman

Shabbat Ki Tavo 20 Settembre, 2019

Dalla porzione di Torà di questa settimana : “Avete affermato oggi che il Signore è il vostro Dio…e Dio ha affermato che voi siete il suo popolo prediletto. (Deuteronomio 26:17-18)

La parola “affermato” è una di una miriade di traduzioni dall’ebraico. Troviamo anche “dichiarato”, “riconosciuto”, “scelto” e “promesso”. In ebraico è una forma del verbo “dire” o “parlare”. La stessa parola che viene utilizzata più volte nel racconto della creazione : “E Dio disse “Che sia fatta…e cosi fu.”

Nell’ebraismo ci viene ricordato più volte il potere che hanno le parole. Hanno la capacità di definire, nominare, chiarire, creare e di fare molti danni. Con l’arrivo delle festività sacre ci viene chiesto di riflettere su come abbiamo utilizzato questo grande potere e il potenziale delle nostre parole.

Ci sono diversi aforismi rabbinici che ci mettono in guardia dalle parole. “Le parole sono come frecce. Una volta scagliate, non possono essere richiamate.” “Cosi potente è la lingua, che viene tenuta dietro a due cancelli, i denti e le labbra. Meglio tenere serrati entrambi.”

La lista integrale di confessioni di Yom Kippur contiene cinquantaquattro tipi di trasgressioni. I peccati verbali sono molto numerosi in questo elenco.

Spergiurare, spettegolare, calunniare e mal rappresentare. La lista è lunga.

Nell’anno appena passato non riesco a pensare ad un’occasione in cui feci del male fisico a qualcuno, ma mi ricordo situazioni in cui delle parole che ho espresso in malo modo hanno ferito qualcuno, e altre circostanze in cui la mancanza di una parola di conforto o di consiglio hanno senza intenzione causato ancor più dolore. Credo di non essere il solo.

Per il peccato commesso per parole dette o non dette ci viene consigliato di cercare e chiedere perdono. In un momento di accesa discussione abbiamo tutti detto cose di cui ci siamo poi pentiti. Ed è però grazie a questa stessa azione di esprimerci che, in una situazione del genere, possiamo formulare delle scuse e cercare di fare pace con il nostro prossimo. Con le nostre parole possiamo incoraggiare, dare sostegno, rincuorare e rallegrare gli altri. Purtroppo, sono in tanti che oggi sperano in parole di lode, affermazione, accettazione o amore - parole mai ricevute ma comprensibilmente aspettate da coloro a cui siamo legati da rapporti di famiglia. Il silenzio non è sempre d’oro.

Sotto il baldacchino cerimoniale, due sposi si promettono l’uno all’altra e creano una casa con il pronunciare di loro parole che legano insieme le loro vite. I versi biblici sopraccitati sottolineano anche il potere della parola nel creare e legare. L’affermazione - l’esprimere parole l’uno verso l’altro - crea un rapporto, un legame, un patto tra Dio ed Israele. Lo stesso vale per qualsiasi comunità. Il modo in cui ci parliamo o in cui tratteniamo le parole-in strada, in un negozio, al telefono o in internet-determinerà in gran parte il tipo di mondo in cui vivremo e che aiuteremo a creare.

Che quel mondo sia uno di benedizioni, dove le parole pronunciate dalle nostre bocche e le mediazioni dei nostri cuori ci leghino in rapporti reciproci di amore, premura e rispetto.

Shabbat Shalom

Rabbi Whiman

Shabbat Ki Teitzei 13 Settembre, 2019

Nella lettura della Torà di questa settimana ci viene presentato un lungo elenco di leggi e statuti – più mitzvot che in qualsiasi altra porzione del pentateuco. Alcuni comandamenti sono eticamente giusti. Alcuni sono curiosi e altri potrebbero sembrare addirittura barbarici. Cosa dovremmo pensare di passaggi che comandano la lapidazione di bambini pestiferi e di flagranti adulteri? Ordini che, secondo la Torà, sono necessari per estirpare il male dal mondo.

Secondo la tradizione ebraica, il pentateuco in forma integrale fu dato a Mosè sul monte Sinai - in parte in forma scritta (I dieci comandamenti), il resto oralmente e poi trascritto da Mosè stesso – con anche la parte finale del Deutoronomio che descrive ciò che succede dopo la morte di Mosè . L’autorevolezza del testo poggia sulla sua fonte divina e sulla fiducia che abbiamo di avere la versione uguale a come era stata originalmente creata dall’alto. In breve, questo è un punto di vista ortodosso della Torà.

Al seguito della comparsa dei rabbini - diversi secoli dopo gli eventi sul Sinai – vi fu un intera serie di commenti attorno al sacro testo. I saggi non potevano riscrivere la Torà, ma la potevano interpretare. Quindi, quando con preoccupazione si trovarono di fronte a un testo apparentemente barbarico (come lo considero io, ma loro non si furono mai espressi in questo modo), decisero di rendere praticamente impossibile la messa in atto di questa ingiunzione, tramite una serie di pre-codinzioni. Oppure insisterono che il testo non poteva voler dire ciò che sembrava significasse. La loro sfida era liberare il testo dai suoi vincoli temporali e di luogo in cui era stato donato e riuscire a tener fede al suo spirito sacro e autorevole allo stesso tempo.

L’ebraismo liberale ha una diversa serie di sfide per ciò che concerne la lettura e comprensione della Torà. Possiamo abbracciare il concetto che la Torà sia un documento storico scritto durante un certo periodo e conseguentemente riflette il linguaggio di allora e non necessariamente il nostro. Possiamo abbracciare le interpretazioni più recenti che a fatica cercano di dare un senso ai testi ereditati da un loro lontano passato. Possiamo limitarci a leggere quei passaggi meno illuminati o considerarli come frutto di un periodo storico primitivo. Ma se seguiamo questo processo, come possiamo continuare a considerare questo testo sacro e autorevole, decidendo di ignorare certi versi?

Credo che si possa dire che decidiamo di adottare un metodo completamente diverso di interpretazione. Decidiamo di non partire con l’assunto di sacralità del testo per intero, invece cerchiamo questa sacralità all’interno del testo nella sua interezza. Per gli ebrei liberali, la nostra Torà non è esattamente un’opera consegnataci da Dio ma più una cronaca della nostra ricerca per raggiungere Dio. Conseguentemente, attribuiamo significati di sacralità e autorevolezza a quei passaggi che per noi sembrano avere raggiunto quei livelli etico/morali che consideriamo divini. Sicuramente si tratta di un approccio non ortodosso ma non vuol dire che sia meno devoto, pio o rispettoso.

Possiamo metterla così. Affronterei un edificio in fiamme per salvare una pergamena di Torà? Mi piace pensare che lo farei.

Shabbat Shalom

Rabbi Whiman