Parasha Noach

Noè, Genesi 6:9−11:32 (SABATO, 29 OTTOBRE)

Riassunto:

-         Dio decide di causare un diluvio che distruggerà il mondo, risparmiando solo la famiglia di Noè e gli animali che porterà con sé sull’arca.

-         La vita ricomincia dopo il diluvio. Vengono elencati i comandamenti noadici e Dio utilizza un arcobaleno come simbolo del primo patto.

-         La gente comincia a costruire una città e la torre di Babele. Dio disperde il popolo e dà loro lingue diverse con cui parlare.

-         Vengono elencate le dieci generazioni di Noè e di Abramo. 

Lezione di Rabbi Karyn D. Kedar

E successe che, a causa dei peccati del popolo, un grande diluvio coprì la terra. E Dio avvertì Noè, poiché Noè era il più retto della sua generazione. E Dio gli disse di costruire un’arca, cubito per cubito.

Non conosceremo mai la storicità di questo grande diluvio. Altre culture scrivono di diluvi devastanti, un esempio di questi si può trovare nel racconto babilonese di Gilgamesh. Ma è chiaro che l’autore della storia biblica non ha interesse nel darci un resoconto storico. L’autore sta mettendo alla prova il nostro rapporto con Dio, e di Dio con noi, ed è alla ricerca dei motivi che portano ad un fenomeno naturale che causa grandi disastri.

L’autore conclude che vi è una causa ed un effetto come risultato del peccato. Dio punisce, spesso duramente. Fosse per la malvagità delle persone, la terra verrebbe distrutta. Infatti, questo concetto di ricompensa e punizione si trova spesso nel corso della Torah. Io non credo a tutto ciò. Credo invece che quando diciamo di conoscere la causa e l’effetto, lo facciamo con arroganza e hubris.  

Anni fa feci un sogno. Era più simile ad una visione notturna. Immaginai un sarto in una foresta, mentre di notte stava lavorando, illuminato da una singola candela e armato di semplice ago e filo. Pensai, se solo sapessi cucire potrei rattoppare la mia vita. Quando mi svegliai, la visione rifiutò di abbandonarmi. Ho cercato il suo significato.

E cosi trovai la metafora. La nostra vita è come un arazzo. Vi è sopra una figura vaga e con ago e filo la riempiamo di colori un punto alla volta. Quando la vita si fa difficile, vediamo solo il retro dell’arazzo, nodi e fili che non sembrano essere correlati. Quando ci sentiamo forti, vediamo il fronte della figura di chi siamo, e la direzione che sta prendendo la nostra vita si materializza.  In entrambi i casi la vita è la nostra, da creare, da vedere e da decifrare.

Poi vi è un altro tipo di stoffa: un velluto di uno squisito colore nero scuro. Bellissimo, luccicante di vita, ma opaco.  Questo è Dio, o meglio il mistero. Rappresenta ciò che non posso mai conoscere, mai comprendere, mai vedere chiaramente.  Fa parte del mistero. Ed ecco la rivelazione. Faccio ciò che posso, ciò che posso controllare e devo lasciarmi dietro il resto. L’arazzo è mio da creare. Il velluto è mio da vedere. E’ mio compito cucire assieme i due pezzi di stoffa, l’arazzo ed il velluto. La fede vive sulla cucitura tra ciò che so e ciò che non saprò mai.

Come possiamo trovare significato nella grande e curiosa storia di Noè, anche se alcuni di noi, me incluso, rigettano il concetto di ricompensa e punizione? Se non vediamo il racconto come qualcosa di storico, e non lo vediamo come qualcosa di teologico, forse possiamo trovarne significato all’interno delle convenzioni letterarie. Vi è significato in questa parabola. 

Ogni dettaglio dell’arca che a Noè viene ordinato di costruire è descritta nei minimi dettagli, finestra inclusa: “farai all’arca una finestra” (tzhar)  per far entrare luce nell’arca (6:16). Bartenura, un commentatore del sedicesimo secolo su Rashi ,  scrive che la parola ebraica per “finestra” , tzhar, condivide la radice con la parola tzhariyim, “mezzogiorno”.  Bartenura insieme ad altri commentatori dice che a Noè venne ordinato di costruire un’apertura che avrebbe fatto entrare la luce del mezzogiorno. Questa rappresentava una finestra di speranza in attesa del nuovo giorno; una finestra aperta al mondo, ai cieli, ad un forma esterna di aiuto, un'apertura tramite cui Noè poteva mandare un messaggero, una colomba che avrebbe cercato terraferma e gli avrebbe fatto sapere della fine del diluvio.

E proprio così, gli uccelli girano il mondo alla ricerca di terraferma. Dopo un po’, verso sera, mentre il sole inizia a calare, la colomba ritorna, portando nel suo becco un ramo d’ulivo, dimostrazione che si poteva ricominciare di nuovo.  Qui la Torah ci offre una grande metafora spirituale. La storia della finestra dell’arca ci insegna ad essere resilienti, poiché a volte la vita ci porta grandi tensioni. Quando ciò succede, la Torah ci insegna la seguente lezione tramite metafora ed allegoria: Dobbiamo avere un involucro sicuro per sopportare la tempesta. Quando facciamo ciò, non dimentichiamo di costruire una finestra, un’apertura verso il mondo, una via di fuga dalla disperazione, poiché l’arca non è destinata a contenerci per sempre.

I rabbini ci offrono anche una seconda spiegazione per ciò che riguarda il significato della finestra, tzhar. Malbim, un grammatico ebraico del 19esimo secolo e studioso di Torah, ci propone l’idea che Noè non costruì una finestra ma che la parola tzhar si riferisce ad una pietra preziosa chiamata zhorit. Secondo lui, questa pietra è iridescente per natura, internamente luminosa e generatrice di luce. Malbim poi usa una sua interpretazione metaforica per dare una lettura diversa: dalla creazione di un’apertura (tzhar) in modo che la luce possa entrare nell’arca al fare spazio per far sì che la luce possa entrare.

La pietra che genera luce propria è una bellissima metafora per la resilienza. Il significato non si trova nelle avversità e nella tragedia, il significato si trova nelle risorse interne a noi stessi. Ritroviamo equilibrio attraverso il coraggio che ci vuole per vivere con il mistero e l’ambiguità. Viviamo in un vasto mare di un vivere inconoscibile, confuso e ambiguo. Vi sono cosi tante cose che semplicemente non possiamo sapere e che non capiremo mai. La fede non è cieca. La fede è un semplice processo di unire dei punti. La fede trova radici nella lotta costante di conoscere i limiti della nostra umanità, vivere sulla cucitura di cosa possiamo sapere e di ciò che è semplicemente inconoscibile.

Perciò quando ci troviamo sopraffatti dai problemi e dal dolore, possiamo costruirci un’arca, un luogo sicuro, con una tzhar, una risorsa di luce e resilienza.

(Con permesso - https://reformjudaism.org/learning/torah-study/torah-commentary/  Traduzione dall’inglese all’italiano. L’autore non è responsabile per la traduzione.