Shabbat Beshalach 18 Gennaio, 2019

Aveva visto le dieci piaghe colpire il popolo egizio, aveva camminato tra le acque divise del Mar Rosso e aveva visto annegare i suoi inseguitori in una miracolosa liberazione. Ma dopo meno di tre  giorni di viaggio nel nulla, giunti in un luogo chiamato Marah e con solo acqua amara da bere, il popolo ebraico iniziò a mormorare contro Mosè. Poco dopo iniziò anche a sentire la mancanza delle case di tolleranza in Egitto e si alzò il pianto “Se solo fossimo morti per mano di Dio nella terra d’Egitto.”

Sulla sponda del Mar Rosso, il popolo ebraico intonò canti di lode a Dio, ma dopo nemmeno una settimana di viaggio, si sentì libero di esprimere rimpianti, dolori e dispiaceri. Gli Israeliti sarebbero dovuti essere il popolo più grato e fedele al mondo. Come spiegare il comportamento poco lusinghiero ed imbarazzante dei nostri antenati?

Parashat Beshalach ci racconta che “dopo tre giorni da quando avevano lasciato il Mar Rosso, gli Israeliti giunsero a Marah” -  un posto che dovette il suo nome alla locale acqua amara. Poiché la parola ebraica marah significa “amarezza”, il racconto si presta a due possibili interpretazioni :

(1)       Loro (gli Israeliti) giunsero in un luogo chiamato Marah

oppure

(2)       Loro (gli Israeliti) si riempirono di amarezza.

L’utilizzo della lingua da parte della Torà è geniale.

Gli Israeliti sopportarono 400 anni di crudele schiavitù ed oppressione. Gli Egiziani “avevano reso amare le loro vite con malta e mattoni”.  Si, erano stati liberati dalla schiavitù, ma perché Dio ci aveva messo così tanto tempo a liberarli? Perché furono costretti a soffrire così a lungo? Passata la gioia del momento della liberazione, quest’ultima venne sostituita da rabbia e risentimento per tutto ciò che avevano sopportato.

L’amarezza nasce dal dolore e cresce su di esso; se lasciato incontrollato, quel dolore e quella rabbia si trasformano in una corrosiva ulcera emotiva. Quando una persona continua a ripetersi quanto sia stata vittimizzata, maltrattata oppure offesa, questi mali finiscono per diventare parte essenziale di ciò che quella persona è. La generazione che lasciò l’Egitto non abbandonò mai la mentalità da schiavo e portò con sé il fardello e l’amarezza di quella identità nel suo peregrinare. L’ossessione nel dare la colpa a qualcuno (o a qualcosa) per la loro tristezza - piuttosto che rifiutarsi di consentire a forze esterne di bloccarli dal proprio obbiettivo - ha fatto si che gli Israeliti ora liberi non si dessero la possibilità di provare le gioie del vivere nella libertà del presente.

Nel Beshalach, Dio mostra a Mosè come addolcire l’amarezza di Marah facendogli lanciare un pezzo di legno nelle acque torbide. Oggi, i terapisti mentali moderni propongono il perdono come rimedio per coloro che soffrono di amarezza. Perdonare non è facile, ma quando una persona ‘si riempie di amarezza’, l’imparare a perdonare - con o senza amore e compassione - facilita la rimarginazione di una ferita che, anche se dovuta ad origini esterne alla persona, è stata mantenuta in vita dall’interno “E non si può ritenere sopravvalutato il fatto che quando si decide di perdonare colui che ci ha fatto un torto, non lo facciamo per lui ma per noi stessi.”

Ah, se solo i nostri antenati avessero sviluppato un nuovo modo di guardare al loro passato, focalizzandosi sul loro presente e avessero mantenuto salda la visione della loro terra promessa! Una lezione che molti dei loro discendenti farebbero bene ad imparare.

“È praticamente impossibile costruire qualcosa se prevalgono la frustrazione, l’amarezza ed un senso di impotenza.” Lech Walesa

“L’amarezza è come bere un veleno sperando che sia il tuo nemico a morire.”

Shabbat Shalom

Rabbi Whiman