Shabbat Yitro 25 Gennaio, 2019

Parashat Yitro, la parte della Torà di questa settimana ricorda il dono della Torà sul Monte Sinai e la rivelazione di Dio al popolo d’Israele : “E Dio pronunciò tutte queste parole dicendo…”

La tradizione ebraica è divisa su quanti dei dieci comandamenti furono tramandati oralmente al popolo. Ad un certo punto gli Israeliti implorarono Mosè: “Parla tu con noi e ti ascolteremo, ma non far parlare Dio con noi, altrimenti moriremo.” In generale, l’insegnamento rabbinico è che gli Israeliti sentirono solo i primi due comandamenti per voce di Dio, prima che fossero presi dal terrore che li portò a chiedere che la rivelazione avesse fine 

Mosè aveva pensato e voleva che il suo popolo avesse sentito sia tutti i dieci comandamenti sia la Torà per intero. Ma non fu così. “Mosè, parla tu con noi e ti ascolteremo, ma non far parlare Dio con noi, altrimenti moriremo”

Forse Mosè aveva sopravvalutato la forza ed il carattere del suo popolo? Forse si aspettava troppo da esso? Oppure, aveva giustamente inteso il vero potenziale spirituale degli Israeliti e, in quanto loro capo, voleva vedere il realizzarsi di questo potenziale. In altre parole, che Mosè abbia riconosciuto un talento e un’abilità nel suo popolo che il suo popolo non aveva riconosciuto in se stesso? 

Se voi vedete qualcosa in me di più profondo di quanto io riesca a vedere in me stesso, chi di noi due mi capisce meglio? 

La parte della Torà di questa settimana prende il suo nome da Yitro, Jetro, suocero di Mosè. Quando Jetro entra nel campo israelita incontra Mosè seduto - dal tramonto all’alba - a risolvere dispute interne al suo popolo. Jetro gli dice: “Ciò che stai facendo non va bene. Finirai per essere travolto… queste dispute sono troppo pesanti per te. Non puoi farcela da solo.” Jetro poi si consulta con una delegazione di autorità giudiziarie. 

Jetro fu capace di vedere il male che Mosè stava facendo a se stesso ed al suo popolo, anche se Mosè non era stato capace di percepirlo. A volte ci vuole una persona esterna ai fatti per vedere ciò che sta veramente accadendo. È così che si guadagnano da vivere i consulenti d’affari e gli psicologi. È questo il valore di un vero amico e di un valido consigliere. 

Un prigioniero non può liberare se stesso. 

Secondo il Capitolo Dei Padri, Pirkei Avot, Rabbi Yehoshua ci insegna: (Quindi) trovati un maestro (consigliere) ; acquisisci un amico.

Shabbat shalom

Rabbi Whiman

Shabbat Beshalach 18 Gennaio, 2019

Aveva visto le dieci piaghe colpire il popolo egizio, aveva camminato tra le acque divise del Mar Rosso e aveva visto annegare i suoi inseguitori in una miracolosa liberazione. Ma dopo meno di tre  giorni di viaggio nel nulla, giunti in un luogo chiamato Marah e con solo acqua amara da bere, il popolo ebraico iniziò a mormorare contro Mosè. Poco dopo iniziò anche a sentire la mancanza delle case di tolleranza in Egitto e si alzò il pianto “Se solo fossimo morti per mano di Dio nella terra d’Egitto.”

Sulla sponda del Mar Rosso, il popolo ebraico intonò canti di lode a Dio, ma dopo nemmeno una settimana di viaggio, si sentì libero di esprimere rimpianti, dolori e dispiaceri. Gli Israeliti sarebbero dovuti essere il popolo più grato e fedele al mondo. Come spiegare il comportamento poco lusinghiero ed imbarazzante dei nostri antenati?

Parashat Beshalach ci racconta che “dopo tre giorni da quando avevano lasciato il Mar Rosso, gli Israeliti giunsero a Marah” -  un posto che dovette il suo nome alla locale acqua amara. Poiché la parola ebraica marah significa “amarezza”, il racconto si presta a due possibili interpretazioni :

(1)       Loro (gli Israeliti) giunsero in un luogo chiamato Marah

oppure

(2)       Loro (gli Israeliti) si riempirono di amarezza.

L’utilizzo della lingua da parte della Torà è geniale.

Gli Israeliti sopportarono 400 anni di crudele schiavitù ed oppressione. Gli Egiziani “avevano reso amare le loro vite con malta e mattoni”.  Si, erano stati liberati dalla schiavitù, ma perché Dio ci aveva messo così tanto tempo a liberarli? Perché furono costretti a soffrire così a lungo? Passata la gioia del momento della liberazione, quest’ultima venne sostituita da rabbia e risentimento per tutto ciò che avevano sopportato.

L’amarezza nasce dal dolore e cresce su di esso; se lasciato incontrollato, quel dolore e quella rabbia si trasformano in una corrosiva ulcera emotiva. Quando una persona continua a ripetersi quanto sia stata vittimizzata, maltrattata oppure offesa, questi mali finiscono per diventare parte essenziale di ciò che quella persona è. La generazione che lasciò l’Egitto non abbandonò mai la mentalità da schiavo e portò con sé il fardello e l’amarezza di quella identità nel suo peregrinare. L’ossessione nel dare la colpa a qualcuno (o a qualcosa) per la loro tristezza - piuttosto che rifiutarsi di consentire a forze esterne di bloccarli dal proprio obbiettivo - ha fatto si che gli Israeliti ora liberi non si dessero la possibilità di provare le gioie del vivere nella libertà del presente.

Nel Beshalach, Dio mostra a Mosè come addolcire l’amarezza di Marah facendogli lanciare un pezzo di legno nelle acque torbide. Oggi, i terapisti mentali moderni propongono il perdono come rimedio per coloro che soffrono di amarezza. Perdonare non è facile, ma quando una persona ‘si riempie di amarezza’, l’imparare a perdonare - con o senza amore e compassione - facilita la rimarginazione di una ferita che, anche se dovuta ad origini esterne alla persona, è stata mantenuta in vita dall’interno “E non si può ritenere sopravvalutato il fatto che quando si decide di perdonare colui che ci ha fatto un torto, non lo facciamo per lui ma per noi stessi.”

Ah, se solo i nostri antenati avessero sviluppato un nuovo modo di guardare al loro passato, focalizzandosi sul loro presente e avessero mantenuto salda la visione della loro terra promessa! Una lezione che molti dei loro discendenti farebbero bene ad imparare.

“È praticamente impossibile costruire qualcosa se prevalgono la frustrazione, l’amarezza ed un senso di impotenza.” Lech Walesa

“L’amarezza è come bere un veleno sperando che sia il tuo nemico a morire.”

Shabbat Shalom

Rabbi Whiman 

Shabbat Bo - 11 gennaio 2019

All’alba dell’esodo dall’Egitto, Mosè parla con il suo popolo, non di libertà e della loro imminente liberazione dalla schiavitù ma di un tempo ben più distante nel futuro.

Nella porzione di questa settimana, la Torà ci dice per ben tre volte: «E quando i vostri figli vi chiederanno: “Che significa per voi questo rito?”, risponderete: “Questo è il sacrificio della Pasqua in onore dell’Eterno, il quale passò oltre le case dei figli d’Israele in Egitto, quando colpì gli Egiziani e salvò le nostre case” (Esodo 12:25-27). E in quel giorno tu spiegherai la cosa a tuo figlio dicendo: “Si fa così, a motivo di quello che l’Eterno fece per me quando uscii dall’Egitto” (13:8). E quando, in avvenire, tuo figlio t’interrogherà dicendo: “Che significa questo?”, gli risponderai: “L’Eterno ci trasse fuori dall’Egitto, dalla casa della schiavitù, con mano potente” (13:14)». Questi passaggi dalla Parashat Bo ci sono familiari, dato che li troviamo durante il corso del seder di Pesach.

Inoltre, ogni festa e Shabbat inizia con un kiddush,  che ci ricorda che i festeggiamenti durante quel giorno sono anche uno zechar y’tsirat mitsrayim, un ricordo dell’abbandono dell’Egitto. Di tutti gli eventi importanti nella storia ebraica, quindi, l’esodo risulta essere il più significativo.

Ma un evento risulta avere un significato nel tempo solo se viene ricordato e solo se la sua importanza viene riconosciuta. Questo potrebbe forse spiegarci perché Mosè non si preoccupa dell’esodo vero e proprio, ma del suo significato per le generazioni future. La Torà ci propone il raccontare storie come antidoto per l’amnesia.

Il New York Times recentemente ci ha raccontato della morte a 108 anni di  Georges Loinger, un salvatore di bambini ebrei durante la guerra. Loinger, cresciuto in una famiglia religiosa, condusse centinaia di bambini ebrei dalla Francia occupata al sicuro nella neutrale Svizzera. Terminata la guerra, aiutò i sopravvissuti all’Olocausto a raggiungere il Mandato britannico della Palestina. Senza alcun dubbio Georges Loinger avrà sentito la storia dell’esodo raccontata più volte al tavolo di Pesach con la sua famiglia. La storia di  Loinger è come quella di Mosè: a sua volta condusse la sua gente verso la salvezza e la libertà. Suo figlio ha raccontato che le ultime parole di suo padre sul letto di morte furono : “Personne ne pourra détruire la culture juive. Nessuno potrà mai distruggere la cultura ebraica”.

Questo rimane vero finché le storie - specialmente le storie come quella di Georges Loinger - continueranno ad essere perpetuate nel tempo, tramandate da una generazione all’altra. 

Rabbi Jonathan Sachs scrive: “Almeno nell’Occidente, non vi è stata storia più influente dell’Esodo – il ricordo di come la Potenza Sovrana nell’universo intervenne nella storia per liberare i più impotenti, ed insieme ad un popolo fece un patto per creare una società che fosse l’opposto dell’Egitto, dove gli individui fossero rispettati in quanto creati ad immagine e somiglianza di Dio, dove un giorno su sette qualsiasi gerarchia di potere fosse sospesa e dove la dignità e la giustizia fossero accessibili a tutti”.

Shabbat Shalom.

Rabbi Whiman

Shabbat Vaera - 4 gennaio 2019

La porzione della Torah di questa settimana è piena – per usare le parole della vecchia Haggadah della Maxwell House – di segni e miracoli, di piaghe e presagi. La Parashat Vaera narra le prime sette delle dieci piaghe inviate contro l’Egitto.

La settima fu la piaga della grandine. Ma non si trattò di un evento meteorologico ordinario. La Torà lo descrive come ghiaccio con all’interno lampi di fuoco. Cosa che, naturalmente, portò i rabbini a porsi delle domande.

Come potrebbe essere? Fuoco nel mezzo di grandine? Il fuoco non scioglierebbe il ghiaccio, o al contrario il ghiaccio sciolto non spegnerebbe il fuoco? La loro conclusione: i due elementi fecero pace per svolgere il volere del loro Creatore.

I rabbini diedero due esempi simili. Indicarono la pratica di far galleggiare un sottile strato d’acqua sull’olio utilizzato nelle lampade della casa di studio. Far passare uno stoppino attraverso i due elementi in opposizione faceva sì non solo che l’olio durasse più a lungo, ma anche che la luce della lampada fosse più luminosa.

In maniera simile notarono che, quando un melograno matura, i semi si espandono e fanno pressione verso l’esterno, proprio come la buccia del frutto si ritira e preme verso l’interno. Le due forze contrastanti, secondo il loro modo di pensare, rendevano il succo così squisitamente sano e dolce.

Scrivo questo episodio del mio blog settimanale da Essaouira, sulla costa atlantica del Marocco. Essaouira per molte centinaia di anni è stata una città fiorente ed importante. Sembra che nel 19° secolo inoltrato questa città fosse circa al cinquanta per cento ebraica. Chi lo sapeva?

C’è stata una lunga tradizione di tolleranza religiosa e rispetto reciproco in Marocco. La porta principale per entrare ad Essaouira reca i simboli delle tre fedi abramitiche scolpiti in bella vista nella costruzione in pietra: la croce, la mezzaluna e la stella a sei punte. Un ulteriore esempio di come, quando elementi apparentemente contraddittori fanno pace per svolgere il volere del loro Creatore, il risultato sia inevitabilmente illuminante, incoraggiante e decisamente dolce.

La storia degli ebrei del Marocco si estende per molte migliaia di anni – alternando periodi di prosperità con altri di persecuzione, ma in generale in un regno straordinariamente tollerante. Durante la Seconda guerra mondiale, quando il governo francese di Vichy ordinò a Mohammed V di consegnare i sudditi ebrei, il re rifiutò. Chi lo sapeva?

Viviamo in un mondo che sempre più ci obbliga a scegliere o l’uno o l’altro, costantemente con lo sforzo di imporre un’opzione, un’idea o una prospettiva su tutte le altre. Non deve essere così. Quando idee differenti, apparentemente contraddittorie trovano il modo di conciliarsi tra loro, il risultato di solito è più vantaggioso per tutte le parti coinvolte. E il risultato, direi, riflette in modo più accurato il volere del nostro comune Creatore.

I miei migliori auguri per un felice Anno Nuovo civile e Shabbat Shalom.

Rabbi Whiman

Shabbat Shemot - 28 Dicembre 2018

Nel libro “Alice nel paese delle meraviglie”, Humpty Dumpty chiede ad Alice quale sia il suo nome. Alla sua risposta replica: “Che nome stupido. Che significa?”; Alice gli chiede: “Un nome deve sempre significare qualcosa?”. “Certo,” dice Humpty Dumpty, “il mio nome indica la mia forma. Con un nome come il tuo, potresti essere di qualsiasi forma”.

La porzione di questa settimana, Shemot, significa “i nomi”. Shemot è anche il nome in ebraico del secondo libro della Torah. Ciò che noi chiamiamo “Esodo”, nella Torah è chiamato “I nomi”. La porzione e il libro dell’Esodo cominciano con le parole: eleh shemot b’nei Yisrael, questi sono i nomi dei figli d’Israele venuti in Egitto.

Gli antropologi studiano i nomi come modalità per valutare i valori che una cultura ha più a cuore. In alcune società, i nomi fanno riferimento ad aspirazioni o imprese realizzate. I nomi teutonici, per esempio, tendono ad esprimere coraggio, potere, forza e nobiltà marziali. Nonostante ci siano molti guerrieri nella Torah, la maggior parte dei nomi biblici ha un carattere più spirituale. Molti nomi in ebraico esprimono un’associazione con Dio. Michael significa “Dio è la mia forza”. Daniel “Dio è il mio giudice”. Yael “Adonai è il mio Dio”.

Nell’ebraismo ci sono molti onori e riconoscimenti. Il saggio del Talmud Rabbi Simeon insegnava: “Ci sono tre corone: la corona del sacerdozio, la corona reale e la corona dello studio, ma la quarta, la corona del buon nome, è superiore a tutte”. La corona del buon nome è la reputazione guadagnata con le buone azioni e gli atti di onestà. Non si può ereditare un buon nome, bisogna guadagnarselo. Un buon nome ci viene attribuito solo con una vita di impegno onesto, retto ed etico. Si ottiene solo con sforzi diligenti, e può essere perso o svenduto facilmente.

È nostra la facoltà di determinare la maniera in cui il nostro nome sarà pronunciato durante la nostra vita e come quel nome sarà ricordato quando non ci saremo più. Quindi, come buon proposito per l’inizio del nuovo anno civile, abbiate di vivere la vostra vita in modo tale che il vostro nome sia davvero onorato e ricordato come una benedizione.

Shabbat Shalom

Rabbi Whiman

Shabbat Vayechi - 21 Dicembre, 2018

A partire da Ottobre di quest’anno, ogni settimana ho scritto e pubblicato un mio commento sulla parshat ha-shavuah, il passo settimanale della Torà che viene letto durante la funzione mattutina di Shabbat. Non appena finisco di scrivere il blog e lo invio, devo iniziare a pensare a quello della settimana successiva.

Il New York Times ha recentemente pubblicato un articolo riguardante la settimana della moda a Milano. Il titolo era qualcosa del tipo: “Disegna. Pianifica. Produci. Esegui.” Wow. E poi fai di nuovo tutto da capo! Sicuramente non appena la linea stagionale di abiti è nei negozi, le case di moda sono già al lavoro per preparare la linea per l’anno seguente.

Questa è la caratteristica di ripetitività di tanta parte dell’attività umana.

La mitologia ci racconta di Sisifo, il re di Corinto, che venne condannato dagli dei a spingere un enorme masso su per una collina, solo per vederlo rotolare giù di nuovo ed essere costretto a ripetere lo sforzo all’infinito. Da qui il termine “sisifeo” ad indicare un compito o un lavoro infinitamente ripetitivo e inutile.

In questo Shabbat Vayechi giungiamo alla fine del Libro Della Genesi e settimana prossima inizieremo Il Libro Dell’Esodo – una sequenza che abbiamo ogni anno durante questo periodo, con il nostro seguire ancora una volta il ciclo della Torà. Tanti nostri gesti e atti sono ripetitivi, ma posso essere considerati sisifei?

La Mishnà recita e ripete quotidianamente nelle funzioni mattutine: “Questi sono doveri di valore inestimabile, la cui ricompensa è altresì inestimabile, atti che non possono mai essere tralasciati con la frase “Ho fatto abbastanza”. Controllate l’elenco dei doveri e vedrete che sono atti di rettitudine morale, di compassione e di amore, che, anche se vengono costantemente ripetuti, non cadono mai nella categoria “dell’aver fatto abbastanza”. Includono onorare il padre e la madre, compiere atti di amore e gentilezza, frequentare la casa dello studio, consolare chi è in lutto, e fare pace quando c’è un conflitto. Con tutto il rispetto a queste mitzvot, anche qui ci troviamo davanti ad un caso di “Disegna. Pianifica. Produci. Esegui. E poi ripeti”.

Questi atti fanno la differenza? La risposta è sì, secondo la fede ebraica. Riparano il mondo.

Quando giungiamo al termine della lettura di qualsiasi volume del pentateuco, diciamo: chazak, chazak v’nitchazek – sii forte, sii forte, e ci rafforzeremo.

In modo da avere la koach, la forza di agire con bontà, per poi ripeterci nuovamente.

Shabbat Shalom

Rabbi Whiman

Shabbat Vayigash

In Vayigash, il passo della Torà di questa settimana, la storia di Giuseppe giunge al suo apice drammatico. In Egitto, Giuseppe era arrivato ad ottenere importanza e potere, e quando i suoi fratelli vennero da lui per comprare del grano non lo riconobbero. Giuseppe si prese gioco di loro, li accusò di essere spie e prese in ostaggio Beniamino, il più giovane dei fratelli. Più avanti si legge che suo fratello Giuda gli si avvicinò e si offrì di diventare suo schiavo in cambio della libertà di Beniamino. La parola ebraica vayigash significa “e si avvicinò”.

Una dei commenti rabbinici in merito dice che mentre Giuda si avvicinava aveva già un piano ed una strategia in mente. In primis, avrebbe lusingato Giuseppe, per poi cercare di ragionare con lui. Se questo piano fosse fallito, avrebbe discusso con lui, per poi passare alla forza bruta, se necessario, per aiutare Beniamino. La sua ultima risorsa nonché arma finale, se tutto il resto fosse fallito, sarebbe stata di pregare.

Nonostante gli insegnamenti dei nostri antenati rabbini, oggi giorno non vedremmo la preghiera come arma e nemmeno come mezzo più efficace per raggiungere un determinato scopo. Io credo che molti, se non tutti, vedano la preghiera come l’ordinare qualcosa da Amazon, una richiesta teologica per beni, servizi e benedizioni, con un tempo di consegna meno prevedibile. La preghiera ebraica infatti fa parte di un discorso religioso di supplicazione. Ma c’è di più.

Vi è un passaggio in “Gates of Prayer”, il precedente libro di preghiere del movimento Reform Americano, che recita : “La preghiera non porterà acqua ad un campo secco, non riparerà un ponte infranto, nè ricostruirà una città devastata; ma la preghiera può dare acqua ad un’anima arida, riparare un cuore infranto e rincuorare una debole volontà d’animo.”  Vi è una grande verità in questa formula, ed in questo senso credo che la preghiera abbia un suo potere.

E c’è un ulteriore spunto di riflessione. Ho letto che Beethoven scriveva musica che non poteva essere adeguatamente eseguita con gli strumenti della sua epoca. La musica di Beethoven era una forma di preghiera. Diceva “Dammi strumenti domani su cui possa suonare la musica di oggi.”

C'è una parte delle Alpi terribilmente ripida, chiamata Semmering. Nel 1848 su queste montagne venne iniziata la messa in opera di binari per il collegamento ferroviario tra Vienna e Venezia. Anche in questo caso i binari vennero installati ben prima che ci fossero locomotive abbastanza potenti per usarli. Il tratto del Semmering è a suo modo un tipo di preghiera. Diceva “Costruiscimi un treno domani che possa passare su queste rotaie che ho costruito oggi.” 

Secondo la tradizione Reform, la preghiera è un modo di mandare un messaggio al mondo, quello che potremmo definire “ciò in cui speriamo ma ancora non c’è”, questo includerebbe la giustizia, l’uguaglianza, la serenità, la libertà, l’autorealizzazione e la pace. Secondo l’ebraismo, è un modo di dare una raffigurazione di ciò in cui anche Dio spera per noi e per il mondo, ma che ancora non c’è. Concepita in questa maniera, la preghiera ci serve da potente ricordo di agire in modo tale per cui avvenga ciò in cui speriamo ma che ancora non c’è.

Credo che questo pensiero fosse dietro ad un altro passaggio del “Gates of Prayer”: Prega come se tutto dipendesse da Dio. Agisci come se tutto dipendesse da te. 

Shabbat shalom.

Shabbat Hanukah

Nell’antico Israele, i casati di Hillel e di Shammai dominavano il pensiero ebraico. Le due scuole erano in disaccordo praticamente su tutto quanto riguardava il praticare l’ebraismo. La Mishnà documenta i loro dibattiti e le loro divergenze. Anche la gioiosa festa di Chanukkà era soggetta a discussioni.

Hillel e Shammai erano entrambi d’accordo che Chanukkà doveva essere una festa di otto giorni e bisognava ricordare il miracoloso olio dei Maccabei tramite l’accensione di candele. Lì finiva il loro punto d’incontro.

La scuola di Shammai ordinò l’accensione di otto candele la prima notte di Chanukkà, numero da ridursi progressivamente ogni notte successiva – sette candele il secondo giorno, sei candele il terzo giorno e così via. La scuola di Hillel la pensava in maniera opposta, ordinando una candela a notte, due la seconda notte, ecc. “Perché…” diceva Hillel, “I momenti sacri non dovrebbero mai andare a diminuire ma a crescere.” Alla fine la spuntò Hillel, e questo è ciò che facciamo anche noi oggi.

La verità è che entrambi gli approcci hanno senso.

L’idea di Shammai di ridurre progressivamente il numero di candele potrebbe aver trovato origine nella costante riduzione della quantità di olio all’interno del contenitore originario. Quindi la menorah di Shammai inizia con un bagliore di luci per poi pian piano dissolversi.

L’idea di Hillel invece è un progressivo aumentare del numero di luci, che potrebbe trovare le proprie origini nella meraviglia provata dai Maccabei quando si resero conto che stavano assistendo ad un miracolo.La menorah di Hillel inizia con un unico punto di luce per poi progressivamente diventare una fonte d’illuminazione.

Il Talmud ci racconta di un altro grande dibattito fra i due casati. In questo caso l’oggetto del contendere era la domanda : “Tenendo conto di tutti i problemi della vita, e della la propensione dell’umanità ad agire in maniera negativa, sarebbe stato meglio se quest’ultima non fosse mai stata creata?” Shammai disse sì. Hillel disse no.

In questo caso Shammai sosteneva che gli esseri umani erano creature peccaminose, bombe ad orologeria. Hillel invece diceva che ogni momento della vita era un’opportunità per fare del bene, di compiere una mitzvà, di vivere secondo il sogno di Dio per l’umanità. Il Talmud ci dice che il loro dibattito durò per due anni e mezzo, finché finalmente si decise di andare al voto.

Questi due punti di vista hanno in realtà diverse cose in comune, più di quanto potreste pensare. Vi è un fondamentale disaccordo sulla natura umana. Siamo creature inevitabilmente malvagie e violente o siamo potenzialmente capaci di buoni gesti? E, conseguentemente, il futuro sarà sempre più cupo o si starà schiarendo?

La decisione di seguire la via di Hillel per quanto riguarda l’accensione della menorah, ovvero aumentare progressivamente il numero di candele ogni notte, rappresenta la fiducia in un futuro che sarà sempre più luminoso grazie alle nostre buone azioni e ad atti di amore.

E chi vinse la famosa disputa fra i due casati per quanto riguardava il destino dell’umanità? Sorprendentemente vinse Shammai. Il voto dei rabbini indicò che sarebbe stato meglio se l’umanità NON fosse mai stata creata; ma, detto questo, il Talmud aggiunge : siamo in ballo, quindi balliamo.

Io e voi facciamo parte di questo mondo, e il nostro livello spirituale aumenta e non diminuisce. Quindi il pensiero ebraico per questa stagione è: anche se la situazione appare buia, dobbiamo fare del nostro meglio oggi e fare un po’ di più domani. E passo-passo, il mondo, il vostro mondo, sarà sicuramente più luminoso.

Shabbat shalom e Felice Chanukkà. cosi calorose ed ospitali.

Rabbi Whiman

Shabbat Vayeshev

New Bern è una piccola città sulla costa del Nord Carolina che si trova tra due fiumi. È vecchia secondo gli standard americani ma nuovissima secondo quelli milanesi. Anche sembra difficile crederlo, c’è una connessione tra questa città statunitense e il capoluogo lombardo.

Le due città condividono lo stesso rabbino. Io conduco le funzioni durante le festività a New Bern e questo mio breve articolo viene mandato sia nella newsletter di Beth Shalom che su quella della congregazione B’nai Sholem.

Diverse settimane fa ho ricevuto una lettera da un membro della mia congregazione del Nord Carolina: suo nipote Noah sarebbe stato a Milano per motivi di studio durante l’ultimo semestre e mi ha chiesto se potessi mettermi in contatto con lui. Noah ha partecipato a una funzione di Shabbat di Beth Shalom a novembre e io e David l’abbiamo invitato a unirsi a noi per la cena del giorno del ringraziamento la settimana seguente. Ecco un’altra connessione.

Durante la cena è consuetudine che a tavola ogni persona esprima la propria gratitudine per qualcosa. Noah ha detto di essere grato di poter fare parte della nostra cena: in questo modo non ha sentito nostalgia di casa e gli è sembrato di non essere così tanto lontano.

La storia di questo Noah, in contrapposizione a quella del suo omonimo biblico Noè, è fatta di legami, ospitalità e famiglia. Si dice che ci sono sei gradi di separazione da superare per stabilire una connessione tra due persone di qualsiasi parte del mondo, ma per gli ebrei molto spesso questi sei gradi si riducono soltanto a due.

Durante uno Shabbat di qualche settimana fa, io e David abbiamo partecipato a una funzione al tempio di Via Guastalla. Fuori dall’edificio il responsabile della sicurezza ha mandato via sgarbatamente una visitatrice che avrebbe voluto entrare. Parlando con questa signora abbiamo scoperto che non solo era un’ebrea di Città del Messico, ma che era anche una carissima amica di un ex socio di David. Sì, in molti casi, bastano solo due connessioni.

La porzione della Torà di questa settimana inizia con le parole: ayleh toldot Ya’akov, questa è la storia della famiglia di Giacobbe. Noi ebrei ci descriviamo collettivamente come bnei Yisrael, i figli d’Israele. Siamo tutti discendenti spirituali di Giacobbe e questo fa di noi una grande famiglia: forse siamo solo parenti alla lontana, ma siamo comunque parenti.

Una delle qualità che contraddistingue Beth Shalom è il caloroso benvenuto che viene dato ai “fratelli” che ci raggiungono da ogni parte del mondo e partecipano alle attività della congregazione.

Yaron è venuto a Milano dopo aver partecipato a un congresso della Rockefeller Foundation sul lago di Como. Stava solo cercando un posto per recitare il kaddish per le vittime di Pittsburgh e invece ha trovato una congregazione con un grande cuore. Il suo commento in merito è stato “Beth Shalom è la congregazione più calorosa e ospitale di cui abbia mai fatto parte.”

Secondo la nostra tradizione, l’hachnasat orchim, ovvero ospitare uno sconosciuto, è una grande mitzvà. Si dice che l’ospitalità fosse una delle qualità del nostro patriarca Abramo. Beth Shalom può andare fiera del nostro continuo impegno collettivo nel compiere questo atto sacro, e personalmente sono grato di essere associato con persone cosi calorose ed ospitali.

Shabbat Shalom

Rabbi Whiman

Shabbat Vayishlach

Mentre l’Amidah mattutino del Shabbat volge al termine, cantiamo: Sim shalom tova u’verachah - O Dio, dona pace, bontà, benedizioni e favore a noi , a Israele e a tutto il mondo. La preghiera poi continua con ki b’or panechah - letteralmente ‘perché dalla luce del tuo volto divino, o Dio, ci hai donato l’amore per la gentilezza”.

Cosa vuol dire? Ricordiamo che la Torah ci insegna che quando Mosé chiese a Dio : “Ti prego, mostrami la tua gloria,” Dio rispose “Nessuno può vedere il mio volto e vivere.” Quindi cosa vuol dire “la luce del tuo volto divino” ?

La risposta viene data nella porzione di questa settimana, Vayishlach. I fratelli Giacobbe e Esaù non si parlavano da molti anni. Giacobbe aveva rubato a Esaù l’eredità e la benedizione. Di conseguenza, Esaù aveva giurato vendetta e pianificato l’uccisione di suo fratello. Ma quando finalmente i due s’incontrano, si abbracciano. C’é un momento di riconciliazione. Giacobbe invita suo fratello ad accettare dei doni, ma Esaù rifiuta. Giacobbe insiste dicendo “Per nessun altro motivo che il fatto di vedere il tuo volto é come vedere il volto di Dio”.

Quando vediamo o siamo soggetti di gentilezza, compassione o perdono, quando vediamo o aiutiamo una persona malata a guarire, quando vediamo altri agire nel modo secondo il quale riteniamo agirebbe Dio e come Egli vuole che noi agiamo, questo è la massima vicinanza consentita a noi mortali per vedere il volto di Dio.

Anche quando siamo in sintonia nel vedere il volto di Dio nelle buone azioni compiute da altri: questo può essere fonte d’ispirazione per noi per agire nella medesima maniera. L’amore per la gentilezza nasce e cresce nel vedere e nel ricevere atti di amore. E quando noi facciamo gemilut chasadim, atti di amore e gentilezza, allora anche gli altri potranno vedere il volto di Dio nelle nostre azioni.

Vediamo il volto di Dio quando vediamo la reverenza che altri hanno nei confronti dei loro anziani genitori, quando vediamo altri aiutare coloro che sono in lutto a compiere i riti necessari o quando vediamo altri gioire con i propri amici e vicini. E’ possibile vedere il volto di Dio in coloro che fanno cadere una moneta nelle mani di coloro che ne hanno bisogno. Quindi per voi, Dio a chi assomiglia?

O meglio, per dirla in maniera più importante e leggermente diversa, chi, osservando le vostre azioni, crede che sia come vedere il volto di Dio?

Se il vostro approccio alla vita é onorevole, retto, compassionevole e gentile, se osservate i comandamenti etici e morali della nostra tradizione, allora sono relativamente sicuro che c’é qualcuno che quando vi osserva vede in voi il volto di Dio.

Rabbi Abraham Joshua Heschel scrisse: Non possiamo creare un’immagine di Dio ma possiamo essere una sua immagine.”

Shabbat Shalom

Rabbi Whiman

Shabbat Vayatsai

Quando i castelli italiani smisero di essere fortezze e assunsero più il ruolo di case per la nobiltà, la cosa più importante a livello architettonico divenne la scalinata principale: più maestosa era questa più imponente risultava il castello. Inoltre, l’importanza del visitatore era data da quanto il proprietario del castello scendeva la scalinata per incontrarlo. Se il visitatore doveva arrivare fino in cima alle scale per incontrare il nobile proprietario oppure questi scendeva qualche scalino per venire incontro al suo ospite, era subito comprensibile l’importanza del visitatore ed il riguardo nei suoi confronti.

 Nella Parashat Vayetze,  Giacobbe sogna di una sulam mutazav artza,  una scala, che porta dal cielo alla terra. Degli angeli stanno salendo e scendendo la scala. Dal canto suo, Giacobbe viene sempre rappresentato addormentato a terra, ai piedi della scala. Dove si trova Dio in questo suo sogno?

L’ebraico dice: Adonai nitzav alav, che potrebbe essere tradotto come Dio era “sopra”, cioè in cima alla scala, oppure la stessa frase può essere compresa come “al suo fianco”, che lascerebbe intendere che Dio si trovasse vicino a Giacobbe. Quindi in base all’interpretazione, applicando il principio delle scalinate dei castelli italiani alla lettura della Torah, Giacobbe poteva essere il più insignificante dei visitatori portato al cospetto di Dio che era infinitamente lontano da lui, in cima ad una lunga scala. Oppure, Giacobbe era l’ospite più importante che Dio avesse intrattenuto dai tempi di Adamo ed Eva, dato che vediamo Dio scendere sino in fondo alla scala per dargli il benvenuto. Indipendentemente da come la si interpreta, il cielo e la terra sono collegati, ma Dio è, secondo il libro di preghiere di American Reform, “più lontano della stella più distante o più vicino dell’aria che respiriamo”. A quale delle due indicazioni dobbiamo riferirci?

 Io vorrei suggerire di riferirci ad entrambe, aggiungendo che la frase ebraica è brillantemente ambigua.

Provate a considerare la questione in questo modo. Giacobbe ha ingannato suo padre e ottenuto la sua benedizione, rubandola di fatto a suo fratello maggiore Esaù. In precedenza era riuscito ad ottenere l’eredità tramite metodi altrettanto discutibili. Sta ora fuggendo dalla vendetta di suo fratello. Si ferma per la notte in mezzo al nulla, mette una roccia sotto la propria testa e dorme come un bambino. Solo, in un posto infestato da ladri, briganti e bestie feroci, lui comunque dorme tranquillo. Ma quando nel sogno gli si palesa Dio che gli promette un sacco di belle cose, Giacobbe è scosso, spaventato, terrorizzato.

 Come è possibile che Giacobbe sia riuscito a dormire così beatamente prima di questa visione? Credo che fino a quel punto Giacobbe fosse convinto di averla fatta franca. Si era comportato in maniera discutibile sia moralmente che eticamente, ma era riuscito comunque nel suo intento. Aveva tradito suo fratello, ingannato suo padre ed il piano aveva funzionato. Almeno così pareva. Ma ora Dio gli compare in sogno e gli dice, u’shmartechah, che da un lato significa, ti proteggerò. Ma dall’altro significa, ti tengo d’occhio, ti sto osservando e non ti lascerò scappare.

 Dio poi gli dice v’hashevotechah – e ti porterò indietro - che da una parte significa “ti riporterò a questo luogo”. Però hashevotecha è anche la parola ebraica per pentimento, “per farti pentire”.  In altre parole, Dio dice anche “ti assisterò nel tuo sviluppo morale”. “Giacobbe”, Dio dice, “diventerai una persona diversa, una persona migliore. Fosse l’ultima cosa che farai. Fosse l’ultima cosa che farò io”. E ciò spaventa Giacobbe a morte.

 Nell’ebraismo, la nostra comprensione di ciò che è morale ed etico ha radici negli insegnamenti sacri della nostra tradizione. Il Dio in piedi in cima alla scala, il Dio che chiamiamo Adonai, che va oltre la nostra immaginazione, è la fonte del nostro senso di giusto e sbagliato e la base della nostra comprensione morale ed etica. Ma il Dio che al medesimo tempo si trova ai piedi della scala al nostro fianco, dentro di noi, è la fonte della nostra capacità di sperare, di crescere e di diventare migliori di ciò che siamo.

 Non dobbiamo imitare il comportamento morale ed etico di Giacobbe. Dovremmo invece usare questo suo comportamento per farci delle domande e per trarre insegnamento in merito al nostro. Giacobbe non è nella condizione di stabilire ciò che è giusto o sbagliato. Noi dovremmo utilizzare questi esempi ancestrali di un uomo imperfetto non come modello assoluto da emulare, ma come uno specchio con cui valutare come ci stiamo comportando nel corso del nostro cammino etico e spirituale. L’ebreo che segue gli insegnamenti virtuosi dati dalla tradizione sarà maggiormente portato a sviluppare una moralità da vedersi e interpretarsi come una benedizione.

 Nell’ebraismo, l’essere giusti è una possibilità e non una garanzia. Come Dio disse a Giacobbe : “Sono con te, per incoraggiarti, assisterti e per mettere un braccio intorno a te, di consolazione e di perdono quando ne hai bisogno. Ora va’ verso la benedizione”.

Shabbat Toldot

Nella parte di Torah di questa settimana, Toldot, la progenie di Abramo si estende ed entra nella terza generazione con l’arrivo dei gemelli Giacobbe ed Esaù. Ma già prima della loro nascita vi è una premonizione di discordia. I gemelli lottano all’interno del ventre materno. Dio rivela a Rebecca che questo conflitto prenatale continuerà nelle vite dei due bambini e dei loro discendenti. “Due nazioni verranno dal tuo corpo e il maggiore servirà il minore.”

Nonostante la Torah non lo dica in maniera esplicita, sembrerebbe logico presumere che Rebecca non condivida questa rivelazione con Isacco. Questo spiegherebbe perché Isacco, nonostante apprezzi le qualità di cacciatore di Esaù, tende a favorire il suo primogenito Esau, colui che per tradizione erediterebbe benedizione ed eredità. E anche perché Rebecca favorisca Giacobbe, colui designato da Dio a portare avanti il patto iniziato con Abramo. Per citare una frase di un famoso film “Ciò che abbiamo qui é la mancanza di comunicazione.”

E poiché Rebecca mantiene segreta questa rivelazione, la dinamica familiare sarà ancor più danneggiata da situazioni di frode, furto e inganno che culmineranno con l’intenzione di Esau di uccidere il fratello. Le confessioni di Yom Kippur contengono un lungo elenco di trasgressioni causate da parole, parole dure, cattive, maliziose, che ci sono sfuggite di bocca. Ma a volte è sbagliato trattenere le parole, non parlare,  non comunicare i propri pensieri, sentimenti e preoccupazioni che abbiamo nella mente e nel cuore.

Nella vita familiare, alcuni segreti sono sani e necessari, mentre altri limitano la libertà delle generazioni future. Ciò che un bambino non sa può causargli del male. Il romanzo di Kim Edward, “Figlia Del Silenzio”, racconta la storia di un dottore che porta alla luce i due gemelli di sua moglie e manda via la femmina dei due affetta dalla sindrome di Down. Nel corso dei seguenti 25 anni, la famiglia soffre le conseguenze del segreto del dottore che porta alla nascita di altri segreti e occultamenti.

La verità é che le famiglie sono un paradosso. Segreti che vengono gelosamente custoditi vengono rivelati e scoperti quando i bambini imitano certi comportamenti - se non nella loro generazione, in quelle future. Con il proseguio della storia di Giacobbe, le conseguenze del segreto di Rebecca avrà delle conseguenze nelle vite dei suoi figli e nipoti. I segreti di famiglia hanno conseguenze che vanno oltre ciò che coloro che li mantengono possono immaginare.

Il problema di mantenere dei segreti si rispecchia nella vita di tutti I giorni. Quando non si parla di certi problemi per paura di minacce o imbarazzo, questi rimangono immuni alla correzione. Un problema non discusso è un problema senza soluzione. Quando una verità organizzativa è un segreto aperto, anche quelli ben intenzionati-che vogliono il meglio per l’organizzazione – gireranno attorno ai veri temi riguardanti i molteplici sintomi e non alle cause scatenanti il problema.

La verità é che ci sono pochi segreti così pericolosi da non doversi portare alla luce, dove perderebbero la propria oscurità che una volta li circondava. Anche se c’è sempre un rischio nel rivelare ciò che prima era segreto, il famoso detto “Non vi è nulla da temere che la paura stessa” potrebbe essere d’aiuto.

L’autore delle Ecclesiaste disse “Vi é un tempo per ogni cosa sotto il cielo.” Tra le altre cose “Un tempo per restare in silenzio e uno per parlare”. Se Rebecca avesse condiviso la sua rivelazione con Isacco, forse l’inganno ai danni di quest’ultimo da parte di Giacobbe e la lotta fra i due fratelli si sarebbe potuta evitare.

In ogni caso non è un segreto che la comunicazione aperta e onesta è fondamentale in qualsiasi rapporto.

Shabbat Shalom 

Shabbat Chayei Sarah

Uno dei miei professori alla scuola rabbinica era solito dire che in realtà i rabbini tengono un solo sermone nel corso della loro carriera. A quel tempo non lo sapevo, ma aveva ragione.

Ho tenuto praticamente lo stesso sermone ancora e ancora negli ultimi 40 anni e oltre. Sembra che abbia trovato un grandissimo numero di modi per dire alle mie congregazioni: “Siate semplicemente buoni.” 

Non c’è una traduzione esatta in ebraico per ciò che esprimiamo con la frase “Siate semplicemente buoni”. L’equivalente che più si avvicina è una variante della parola chesed. Nella porzione di questa settimana, il servo Eliezer va in cerca di una sposa per Isacco, figlio di Abramo. Trova Rebecca al pozzo e la corteggia per conto del suo padrone. Dice al padre di Rebecca: “E ora se intendi trattare il mio padrone con chesed v’emet dimmelo, altrimenti guarderò altrove”.

La parola chesed  viene solitamente tradotta come amore e gentilezza. Cantiamo al sheloshah devarim - su tre cose si regge il mondo. Sulla Torah, sulla preghiera v’al gemilut chasadim – e su atti di amore e gentilezza. Ma la parola chesed può anche essere applicata a Dio dove e quando il suo significato indica qualcosa come grazia. Dio agisce con chesed, con misericordia, e questo in modo immeritato, con noi e con il mondo. Chesed viene considerato come uno degli attributi o caratteristiche essenziali di Dio.

Questa qualità è così importante che i rabbini fanno notare che la Torah inizia e finisce con atti di chesed. Quando Adamo ed Eva sono costretti a lasciare il giardino dell’Eden, è Dio che dona loro dei vestiti, e quando Mosè muore solo in cima al Monte Nebo, è Dio che seppellisce il profeta. Suppongo che si potrebbe dire che Dio mostri il suo lato migliore quando agisce con misericordia, con chesed, e per estensione lo facciamo anche noi quando agiamo con amore e gentilezza verso gli altri.

Quando facciamo gemilut chasadim, rispecchiamo il comportamento dell’Altissimo, e quando facciamo questo agiamo come farebbe Dio e come lui vorrebbe che ci comportassimo in qualsiasi situazione.

Quindi “siate semplicemente buoni”, compiere atti di amore e gentilezza non è cosa da poco. Nell’ebraismo esiste un collegamento diretto ed immediato tra la gentilezza e la devozione religiosa. Secondo la nostra tradizione, la gentilezza è un prerequisito per vivere in maniera virtuosa. Quindi vedete che “essere buoni” non è cosa buona nel senso di facoltativo. È una mitzvah, un comandamento, un obbligo sacro.

L’ebraismo è ardito nel dichiarare che “dinnanzi al Trono della Gloria, ogni male di cui ci si pente viene perdonato e ogni gentilezza compiuta non è dimenticata”. Piccoli gesti di gentilezza cambiano e umanizzano il mondo.

Credo che la parte migliore di gemilut chasadim, atti di amore e gentilezza, sia che non serve un talento speciale da parte nostra per compierli. Non tutti possono essere studiosi o scienziati. Ma la gentilezza è un’opportunità uguale per tutti. Richiede solo la nostra intenzionalità ed un cuore aperto.

Quindi “siate semplicemente buoni” e Shabbat Shalom.

Shabbat Noah

In gioventù studiavo presso una scuola pubblica. La storia di Noé, che rappresenta la porzione di Torah di questa settimana, faceva parte del programma scolastico. Ovviamente la storia di Noé nel programma scolastico non veniva indicata come “la porzione di Torah di questa settimana.”

L’insegnante chiese alla classe “ Perché Dio salvò Noé?”  Non rispose nessuno. Allora l’insegnante fece nuovamente la domanda. Poi una ragazza alzò la mano e disse, “Dio salvò Noé, perché Noé era un buon cristiano.”

Ora, sapevo che Noé non fosse cristiano. Dopo tutto avevo appreso la sua storia presso la scuola ebraica, quindi ero sicuro che Noé fosse ebreo. 

In realtà Noé non era nè ebreo nè cristiano, e neanche un membro di qualche comunità religiosa. La Torah ci dice che “Noé era un uomo giusto.” Da questo possiamo apprendere che non bisogna essere necessariamente religiosi per essere giusti. Si può essere una brava persona senza far parte di una chiesa, una sinagoga, una moschea o un tempio. E né ebrei, cristiani, musulmani, hindu o buddisti hanno monopolizzato il mercato del giusto. L’ebraismo difatti ci insegna che avranno un posto nel mondo a venire tutte le persone giuste provenienti da qualsiasi popolo.

Non bisogna essere religiosi, non bisogna essere ebrei per essere giusti, ma se si decide di far parte di una comunità religiosa, in particolare di quella ebraica, allora il proprio compito é impegnarsi per essere giusti.

Ciò che la religione aggiunge al concetto di essere giusti è quello di una dimensione comune o di gruppo. Ricordatevi che Noé lascò il mondo, entrò nell’arca e salvò solo se stesso e la sua famiglia. Il nostro ebraismo ci insegna che abbiamo una responsabilità verso il mondo che va oltre noi stessi. Il mondo per esteso ed il bene comune dovrebbe essere la nostra priorità.

Fare le cose come comunità può risultare difficile perché la gente può essere difficile, ma possiamo ottenere molto di più insieme che non singolarmente. E quando riusciamo a fare le cose per bene come gruppo, allora siamo una vera e propria kehillah kedoshah – una comunità sacra e giusta.

Shabbat Berasheet

Questo Shabbat é Shabbat Berasheet, dove leggiamo la prima delle 54 porzioni di Torah che vengono lette in sinagoga durante il corso dell’anno. Questo lo rende un Sabba ricco di inizi.

Credo che potremmo tutti fare uso di più nuovi inizi possibili. Difatti il poter cominciare da capo è qualcosa di meraviglioso.

Un nuovo inizio é come ricevere un regalo ancora impacchettato. Il contenuto potrebbe essere qualsiasi cosa. Guardare verso un nuovo futuro, le possibilità sono infinite.

Un nuovo inizio vuol dire cominciare da capo. Ti lasci dietro quello che era venuto prima e puoi cominciare da capo. Puoi fare dei cambiamenti. Non sei più intrappolato dai giorni pregressi della tua vita.

In realtà, nell’ebraismo, ogni nuovo giorno va considerato come un nuovo inizio. Il libro di preghiere ci ricorda che il mondo viene ricreato ogni mattina. 

La lode ebraica : “Dio che rinnova giornalmente l’atto della creazione”, come se Dio dovesse dimenticarsi di compiere questo atto creativo ogni giorno, il mondo cesserebbe di esistere. In questo senso, ogni giorno potremmo essere come Adamo ed Eva al risveglio nel giardino dell’Eden, quel primissimo giorno in cui tutto era nuovo e meraviglioso.

 Immaginate come sarebbe rivedere tutto per la prima volta. Ogni albero, ogni persona, ogni alba, ogni sorriso. Sentire tutto per la prima volta.Ogni parola sussurrata, il fruscio del vento, la risata di un bambino. Immaginate come sarebbe meraviglioso. E questo é come andrebbe vissuto ogni nuovo giorno secondo l’ebraismo.

Provateci! Come diceva il mio amico Jeff, “Una volta che ti svegli e apri gli occhi, la parte difficile della giornata é finita.”

Shabbat Shalom

Rav

Shabbat Lech Lechah

Diventa Una Benedizione
Shabbat Lech Lechah
Congregazione Beth Shalom
Milano
Rabbi David Whiman

In questa capitolo settimanale, Dio richiama Abramo e lo invita ad iniziare un viaggio di scoperta personale, di lasciare la casa di suo padre e viaggiare verso una terre distante. Come ricompensa, Dio promette ad Abramo che sarà benedetto e gli assicura che tramite lui, tutte le famiglie della terra saranno benedette. V’huyay berachah, é sarà una benedizione. O per dirla meglio, l’ordine di Dio può essere interpretato come : Abramo, diventa una benedizione. 

Io e voi sappiamo come fare una benedizione. E’ facile. Baruch atah Adonai. Sappiamo come intonare una benedizione e lo facciamo accompagnandola con svariate melodie. Baruch atah Adonai. Ma come possiamo diventare una benedizione? Cosa bisogna fare?  Perché uno avrebbe il desiderio di diventare una benedizione? 

C’é un racconto in cui un rabbino ed i suoi discepoli si erano trovati e stavano mangiando delle mele. Recitarono la preghiera che si dice prima di mangiare, borai p’re haetz, e poi mangiarono le mele.  Il rabbino chiese ai suoi studenti, “Sapete che differenza c’è fra me e voi?” Gli studenti rimasero in silenzio. Il rabbino disse : “Voi recitate la preghiera in modo che possiate mangiare la mela. Io sono colpito dalla meraviglia e dalla gratitudine che la maestà della creazione che ci circonda suscita in me. Io mangio la mela in modo che possa recitare la benedizione che decanta la grandezza di Dio. 

Gran parte delle benedizioni che recitiamo, le berachot, riconoscono Dio in quanto creatore. Sia tu lodato creatore del frutto del vino. Sono espressioni di lode. Spesso io e voi siamo meritevoli di lode. A volte noi esseri umani facciamo cose straordinarie. Mostriamo grandi qualità di cuore e mente. Ma il richiamo di diventare una benedizione non è uno di riconoscimento, il raggiungimento di un obbiettivo o della ricerca di fama.  Il contrario infatti. E nonostante il fatto che noi esseri umani abbiamo prodotto cose fantastiche nel corso della nostra lunga storia, vi sono poche cose cosi preziose che abbiamo creato noi dal niente. Quindi, immagino che nella capacità di creare, la nostra creatività e le cose che ne risultano, anche se importanti, non possono essere considerate come il richiamo a diventare una benedizione. 

Non riguarda nemmeno la nostra capacità di compiere azioni lodevoli. I nostri rabbini ci insegnano che il livello più elevato del comportamento umano risiede nell’imitare le azioni di Dio: In un testo chiamato il Mehilta leggiamo che: Dato che  Dio è considerato sacro, anche tu sarai sacro. Come Dio è benevolo, che tu sia benevolo e come Dio é considerato compassionevole sii anche tu compassionevole. Vi è un’intera categoria di mitzvoth che sono considerate lodevoli perché sono azioni compiute da Dio nella Torah –  dare da mangiare agli affamati, vestire gli ignudi, seppellire i morti. Ma atti di questo genere rientrano maggiormente nella categoria del gemilut chasadeem, atti di amore e gentilezza.  Quando agiamo imitando le azioni di Dio secondo le gentilezze descritte nelle scritture, portiamo una benedizione agli altri. Atti di questo tipo sono importanti, sacri, ma le azioni stesse non rappresentano il significato di cosa vuol dire diventare una benedizione. Anche se credo che ci stiamo avvicinando. 

Voi sapete che vi sono centinaia di benedizioni. Alcune di queste le conosciamo bene. Altre forse meno. Una di quelle meno conosciute viene recitata dopo aver mangiato certi cibi. Quali cibi non è importante in questo momento, ma la brachah va cosi: Benedetto sia tu, nostro signore borei nefashot rabbot v’chesronam. Che hai creato un vasto universe di anime e tutto ciò che ad esse manca. Strana preghiera, vero? Che tu sia lodato per aver creato i nostri difetti. Sicuramente non viene inteso di essere grati a Dio per le nostre mancanze ed i nostri difetti. Non avrebbe senso. Ci deve essere qualcosa di più. 

Credo che questa benedizione serva a ricordarci che ci manca qualcosa, che siamo incompleti, esseri che hanno bisogno di essere interi e di guarigione. Potremmo sembrare autosufficienti, ma il fatto che ci manchi qualcosa significa che abbiamo bisogno l’uno dell’altro. Qualcosa che a voi manca io potrei avere e vice versa. Nel trovarsi insieme possiamo darci a vicenda ciò di cui abbiamo bisogno. Le nostre mancanze rendono la nostra esistenza essenziale ed importante. Nel trovarsi, impariamo ciò che non avremmo imparato se fossimo rimasti isolati. Nel trovarsi possiamo crescere in modi che non sarebbero possibili se fossimo rimasti da soli. Cosi facendo riusciamo a realizzare ciò che non riusciremmo a realizzare da soli. Tramite le nostre mancanze, scopriamo che abbiamo bisogno dell’altro. Essere colui che da a qualcuno ciò di cui ha bisogno per giungere ad una determinate destinazione nella sua vita, questa é l’essenza di cosa vuol dire diventare una benedizione.

Vi do due esempi personali. La mia insegnante d’inglese mi insegnò a scrivere, o meglio come esprimermi in maniera coerente e lucida nello scrivere. Non so come ci sia riuscita. So solo che fu lei che lo fece e sono convinto che il mio successo a livello universitario e a livello professionale siano dovuti a lei. Quello che mi ha insegnato non ha prezzo, lei era la mia benedizione.

Mia mamma ha 98 anni ed ha una schiera di badanti che 

aiutano ad assisterla. Queste donne rappresentano dolcezza, pazienza e supporto. Credo che una di queste in particolare,per via della sua personalità, il suo amore e la sua fede stia tenendo in vita mia mamma e le dona allegria. Non in ciò che fa, ma in ciò che rappresenta. Lei è la benedizione.

Qualche anno fa, conobbi un uomo presso la mia congregazione High Holy Day. Avrà avuto circa 80 anni ed era malato di cancro. Ma ciò che in realtà tormentava quest’uomo erano gli eventi e le esperienze che aveva vissuto 60 anni prima nel ruolo di soldato durante la seconda guerra mondiale. Soffriva ancora di terribili incubi. Potrei intimare che la sua anima era tormentata. Ascoltai la sua storia e gli dissi : “Sander, non puoi cancellare il passato.La domanda che vorrei farti é se vi é un modo di poter tramutare in bene ciò che hai vissuto? Per fare del bene o far si che qualcun’altro stia meglio.” L’idea di redenzione gli apri’ un mondo. Per la prima volta parlò coi suoi figli riguardo a cosa aveva vissuto. Per la prima volta parlò con la congregazione e la sua comunità di Yom HaShoah. Sua moglie mi disse che da quel momento non ebbe più incubi, e mi disse che ora poteva lasciare il mondo in pace con se stesso. Mi disse “Sei una benedizione per la nostra famiglia.” 

Il richiamo di Dio nei confronti di Abramo heyay berachah é di diventare una benedizione per ognuono dei suoi discendenti. Pensatela cosi. Ogni anima é un’insieme di pezzi di un puzzle, alcune anime con più pezzi degli altri, alcune anime sono più difficili da assemblare di altre. Ma nessuna anima é completa. Alla nascita siamo tutti quasi ma non proprio completi Borei nefashot rabot v’heshbonam. Tutti noi abbiamo difetti. Nessuno di noi ha tutti pezzi del puzzle e molti di noi ha con se pezzi per il puzzle di qualcun’altro. A volte ce ne rendiamo conto, a volte no. Ma quando viene donato quel pezzo che a voi può sembrare insignificante, risulta essere essenziale per l’altro, che ve ne rendiate conto o meno, ed è cosi che avrete realizzato l’ordine heyay berachah, diventa una benedizione. 

La Torah ci dice che Abramo, rispondendo al richiamo di Dio, inziò il suo viaggio portando con sé sua moglie, suo nipote Lot e secondo l’ebraico ‘tutte le anime che aveva creato, a Haran.’ Ora sappiamo che solo Dio può creare un’anima. Quindi questa frase probabilmente si riferisce a tutte le anime che riusci’ a rendere complete a Haran. Si, solo Dio può generare un’anima. Ma é vero che a volte solo noi esseri umani possiamo completarle. Quindi sin dall’inizio Abramo rispose pienamente al richiamo di diventare una benedizione. Mi auguro che anche noi ci ricorderemo di essere stati chiamati a fare la stessa cosa e che saremo sempre vigili per quell’opportunità per diventare una benedizione per gli altri.